Si
può stimare che siano stati trasferiti, non
certo in un sol colpo, tra le quindicimila e le ventimila
persone. Cacciati il vescovo e i pochi cristiani,
Lucera divenne tutta saracena. Federico preferì
non intromettersi nell'amministrazione della città,
pur pretendendo il pagamento di un "testatico"
(tassa individuale). I suoi nuovi abitanti ebbero
la facoltà di conservare la loro religione
e di vivere secondo le loro usanze. Fu costruito un
grande castello e un palazzo imponente nel quale,
come hanno rilevato gli scavi, vi si doveva condurre
una vita fastosa. I musulmani avevano un capo proprio,
il caid, con propri organi di vigilanza, coi
loro sheikh (anziani) e fakih, una sorta
di esperti di diritto o giudici. Alla comunità
islamica fu concesso di autogovernarsi secondo la
legge coranica. Le loro moschee e i loro minareti
si vedevano da lontano. Finché regnarono gli
Svevi, i saraceni non ebbero motivo di lagnarsi della
tolleranza loro accordata. Nel 1261, all'epoca di
Manfredi figlio di Federico, Gamal ad-Din, un inviato
del sultano d'Egitto in visita all'Italia meridionale
poteva infatti scrivere al suo signore: "Presso
il paese nel quale io soggiornavo, è una città
chiamata Lugarah, gli abitanti della quale sono tutti
musulmani di Sicilia, e quivi si fa la pubblica preghiera
del venerdì e si compiono pubblicamente i riti
dell'islamismo".
Federico
non prestò mai particolare attenzione alla
proteste indignate del papa e dei suoi accoliti contro
questa comunità islamica in terra cristiana;
sapeva che avevano combattuto per loro convinzioni
religiose e che centocinquant'anni di dominio cristiano
non li avevano piegati. Era un nucleo di combattenti
ostinati, di cui andavano sfruttate le capacità
militari. Non abbiamo ovviamente dati precisi sul
numero degli abitanti della città, ma si pensa
che il numero non superò mai i 35-40.000.
La
cosa per noi interessante è che Federico II
e suo figlio Manfredi erano in grado di arruolare
a Lucera migliaia di saraceni, la maggior parte dei
quali erano arcieri, naturalmente armati con corti
archi compositi di tipo arabo. Questi costituivano
il nerbo e il nucleo permanente dell'esercito imperiale.
Inoltre Federico utilizzava i migliori di questi,
che lo chiamavano sultano, come guardia del
corpo, e se li portava con sé in tutti i suoi
spostamenti.
La città divenne ricca e fiorente e Federico
vi soggiornava volentieri e forse non disdegnava di
penetrare ogni tanto in qualche harem.
Molti
servitori arabi della corte provenivano da Lucera.
La città era sede di una zecca imperiale e
vi si concentrava una fervida attività artigianale
e un'intensa attività culturale. Nella "camera"
regia erano attivi atelier di corte che producevano
gioielli, stoffe, tappeti, selle, armi. Le esigenze
delle guerre combattute dall'imperatore insieme alle
crescente funzione militare acquistata dalla colonia,
spiegano la presenza di armaioli, maestri fabbricanti
di balestre e di archi, di elmi e di spade, che col
tempo fecero di Lucera un vero e proprio centro di
produzione di materiale bellico, in grado di far fronte,
sia pur sempre su scala artigianale, a commesse di
un certo impegno. Le vie della città vedevano
un artigianato variopinto e laborioso; vi si lavoravano
ceramiche di tipo arabo o siculo-arabo con colori
e tecniche che da Lucera si diffusero in Abruzzo,
lavori d'intarsio con premi istituiti dall' Imperatore,
tende e coperte, vi si fabbricavano laterizi, stoviglie
di ottone e di altro metalli. Alla produzione industriale
si aggiunge quella agricola e armentizia, così
fiorente che si registrarono esportazioni di cereali
a Roma e altrove e, alla fine del secolo, anche di
vino.
L'avvicinamento
sul piano economico tra i saraceni, che poi parlarono
italiano, e gli indigeni pugliesi, non tardò
a verificarsi; vennero così introdotti nel
mercato locale nuovi prodotti di origine musulmana.
Secondo il cronista arabo Ibn Wasil, nella città
saracena "venne intrapresa la costruzione
di un istituto scientifico affinché vi fossero
coltivati tutti i rami delle scienze speculative".
Vi erano gabbie di leoni, allevamenti di cavalli,
di cammelli, di leopardi e di altri animali addestrati
alla caccia, altra grande passione di Federico.
Questa
roccaforte e colonia militare, alle dirette dipendenze
del sovrano, era in grado di fornire una fanteria
leggera, armata solo d'arco e di corta spada o coltellaccio,
atta quindi a tener dietro alla cavalleria e a seguirne
gli spostamenti.
Federico anticipava di sessant'anni, dal punto di
vista tattico, l'esperimento d'Edoardo I d'Inghilterra
alla battaglia di Falkirk nel 1298, il quale alle
compatte masse scozzesi doveva contrapporre l'azione
degli arcieri inglesi dapprima, lasciando poi alla
cavalleria il compito di completare la disfatta delle
falangi avversarie già scosse e disorientate.
Questi
agricoltori potevano in ogni momento impugnare le
armi da loro stessi costruite, archi e frecce. Sarebbero
stati fanti o anche, considerata l'eccellenza delle
loro scuderie, cavalleggeri. Queste truppe erano indifferenti
alla scomunica del Papa e ubbidivano solo all'Imperatore
il quale riuscì prodigiosamente a mutare in
breve il selvaggio odio dei vinti nella fanatica fedeltà
verso il vincitore propria degli orientali che servivano
da schiavi il loro signore e protettore. Federico
II aveva nei suoi saraceni una cosa che mancava a
qualsiasi altro signore del tempo: un esercito stabile,
truppe sempre pronte a prendere le armi, ciecamente
fedeli a lui in quanto protettore della fede musulmana.
Questo era un motivo in più per legare i saraceni
a Federico; sradicati, soli in un paese straniero,
in lui solo trovava protezione la loro fede. Ed era
un legame che Federico, saggiamente, si guardò
bene dal rompere; difatti non desiderava per nulla
la loro conversione, e solo per brevissimo tempo,
essendo i rapporti col papa divenuti molto tesi, permise
di malavoglia a una missione di frati minori di recarsi
a Lucera. Federico non mosse un dito per agevolare
la loro opera di conversione la quale, in un'atmosfera
d'indifferenza, rimase priva di frutti.
Ben
altro impegno egli pose invece nel preparare in Lucera
squadre di combattenti ben addestrati per le guerre
che lo attendevano nell'Italia dei Comuni. Sapendo
di dover affrontare la fanteria lombarda armata di
lancia e scudo e sorretta dalla cavalleria alle spalle,
aveva bisogno di disporre d'una buona fanteria di
tiratori, capaci d'infrangere con le loro armi da
getto la massa serrata del nemico.
L'Italia del nord vide le sue strade percorse da questi
insoliti e temutissimi armati.
Nel gennaio del 1236, Ezzelino da Romano, alleato
di Federico II, prese Verona e pose in sua difesa
500 cavalieri tedeschi e 100 arcieri saraceni. L'anno
dopo diecimila saraceni venivano chiamati da Lucera
a Ravenna che si era ribellata, passando coi faentini,
alleati dei milanesi. Qualche mese dopo a Cortenuova,
a oriente di Treviglio, Federico sconfigge i lombardi
riuniti in Lega alla testa del suo esercito feudale
germanico, al quale vennero aggiunti mercenari tedeschi,
500 cavalieri pugliesi e 7000 saraceni. La presenza
nella sua armata di mercenari saraceni era ingente,
e fra di essi gli arcieri dovevano essere in numero
superiore al consueto per un esercito dell'epoca,
tanto che i cronisti coevi parlarono di loro come
se fossero tutti arcieri, cosa in realtà poco
verosimile. Secondo Parisio da Cereta infatti "
.il
14 settembre si raccolsero nel distretto mantovano
settemila arcieri saraceni mandati dalla Puglia in
aiuto del signor imperatore." A Cortenuova
l'assenza della cavalleria lombarda permise a Federico
una mossa vincente e che sembrerebbe costituire un'innovazione
tattica: fece intervenire gli arcieri saraceni i quali,
tuttavia, trovandosi alla retroguardia ed essendo
in buona parte appiedati, poterono entrare in azione
solo poco prima del tramonto. Comunque le loro frecce
incominciarono a grandinare fitte, e non certo a vuoto,
sui ranghi serrati dei guelfi. Il numero dei saraceni
che presero parte alla battaglia di Cortenuova è
controverso. Si direbbe comunque che la maggior parte
di essi fossero effettivamente arcieri, anche se l'unica
testimonianza in proposito si trova in una lettera
del cancelliere imperiale Pier delle Vigne. Dando
notizia del combattimento, il latinista di corte rammenta
infatti, nel suo stile fiorito che "i saraceni
vuotarono le loro faretre", confermando in
tal modo che l'arco era la loro arma tipica e più
usata. Da notare viceversa la scarsezza, se non la
totale assenza, in campo guelfo, di tiratori che avrebbero
potuto contrastarli, sebbene sull'efficienza dei saraceni
si discuta ancor oggi. Alcuni storici sottolineano
che, a causa dell'oscurità incipiente, la loro
azione durò troppo poco per scompaginare davvero
le file avversarie. In ogni caso, anche se i loro
risultati pratici non furono risolutivi, l'impatto
psicologico delle ferite e delle perdite da essi inflitte,
dovette pesare sul morale dei lombardi già
scoraggiati; e non c'è dubbio che, se la battaglia
fosse ripresa il giorno seguente, le scosse milizie
della Lega avrebbero dovuto subire una pioggia di
dardi ancora più intensa e avrebbero ceduto,
rimanendo alla mercé dei cavalieri imperiali.
Arcieri
o meno, i saraceni sono segnalati in azione in quello
stesso settembre del 1236, all'assedio del castello
di Montichiari, importante posizione strategica nel
bresciano, accanto a numerosi cavalieri del Trentino
e a duemila tedeschi; Montichiari si arrese il 23
ottobre e fu rasa al suolo.
L'anno successivo Federico assegnò 300 arcieri
saraceni al suo genero, il feroce signore di Padova
Ezzelino da Romano il quale, portando la guerra contro
i guelfi del Veneto, il 23 marzo prese il castello
di Montagnone con "padovani, tedeschi, pugliesi,
saraceni e certuni dei suoi che aveva portato con
sé dal Pedemonte (la zona di Bassano del Grappa)"
tanto che, a prestar fede a un cronista dell'epoca,
"riempì quasi tutta la Marca (Trevigiana)
di tedeschi, saraceni e pugliesi." Ad eccezione
del loro intervento nella presa di Montagnone, tuttavia,
sembra che i saraceni venissero impiegati in compiti
difensivi: a Padova Ezzelino li dispose "in
castelli e nelle porte cittadine e altrove, come gli
parve meglio"; nei tre anni successivi li
si trova infatti a presidiare, divisi in gruppetti
di dieci-dodici, i castelli di Este, Montagnone, Lozzo,
Cerro, Montecchio Maggiore, Monterosso e Concadalbero.
Le
forze sulle quali Federico poteva fare maggiore affidamento
erano rappresentate da un certo numero di uomini d'arme
italiani e tedeschi trapiantati nell'Italia meridionale
e dai saraceni della colonia di Lucera il cui numero,
secondo alcune fonti, avrebbe raggiunto i 9000 uomini
quando, nella primavera del 1240, Federico mosse su
Roma (senza però entrarvi). Considerando il
numero degli abitanti della colonia di Lucera e degli
altri insediamenti musulmani minori, si è tentati
di credere che l'imperatore ne avesse mobilitato gran
parte degli uomini validi.
Nel
1248 li troviamo a Parma; sono 4000 e si battono furiosamente
incutendo terrore per la ferocia dei loro saccheggi.
Pare tuttavia che i saraceni avessero un grave difetto:
un'indisciplina superiore persino ai livelli, già
alti, consueti negli eserciti del Medioevo. Avidi
di bottino (ma i cristiani non erano certo da meno),
con alle spalle una tradizione di irriducibili predoni
che alimentava una "cultura della rapina",
questi uomini non dovevano essere una truppa facile
da gestire. Il loro modo di combattere, audace ma
estemporaneo e spesso disordinato, fu pagato a caro
prezzo nel disastro di Parma (18 febbraio 1248), anche
se la responsabilità della sconfitta andrebbe
probabilmente imputata anche alla leggerezza dell'imperatore
stesso che si era assentato dal campo di Vittoria
per dedicarsi al suo svago preferito, la caccia coi
rapaci. Accadde che, venuti a sapere della sua assenza,
i lombardi tentarono di forzare l'assedio uscendo
all'alba dalla città con 500 cavalieri e reparti
di fanteria. I cavalieri vennero però attaccati
dalla cavalleria di Federico e retrocessero. Sembra
allora che a tale vista i saraceni, bramosi di far
bottino, uscissero in massa da Vittoria senza neppure
i loro archi, armati a malapena di qualche pugnale
o addirittura disarmati, tanta era la fretta di accaparrarsi
le prede migliori. Trascinati dalla precipitazione
e dalla cupidigia non si avvidero della presenza sul
campo della fanteria parmigiana che accorreva in aiuto
dei loro cavalieri sconfitti. Già di norma
in un corpo a corpo gli arcieri, armati solitamente
alla leggera, rischiano di trovarsi a mal partito;
in questo caso poi, i saraceni si lasciarono cogliere
del tutto di sorpresa e, odiati com'erano dai cristiani,
non ebbero scampo. Furono fatti a pezzi. Nessuno si
curò di contare i saraceni massacrati, ma le
milizie ghibelline ebbero circa 1500 morti. Immenso
fu il bottino. Nelle mani dei vincitori, tanto esultanti
quanto affamati, caddero il tesoro e la corona stessa
di Federico, le aquile imperiali, il Carroccio di
Cremona (che per scherno fu portato a Parma trascinato
da somari), gli animali esotici del serraglio e persino
l'harem di Federico col suo "gregge
di bellissime donne" e le danzatrici orientali.
A proposito dei saraceni di Lucera così scrive
Pietro Egidi: "Soldati che senza difficoltà
potevano armarsi e senza spesa: un arco e delle frecce,
e, chi lo possedeva o dal principe lo riceveva in
dono, montava a cavallo; chi non aveva tanta fortuna
partiva a piedi. Soldati indisciplinati, desiderosi
di bottino, pieni di libidine, se si voglia dar retta
ai nemici di Federico, ma in realtà per nulla
peggiori degli altri; e in compenso resistenti, arditi,
fedeli, pronti allo sbaraglio. Versarono il loro sangue
per l'imperatore e per la sua famiglia un po
dappertutto: in Siria, in Lombardia, in Umbria, nelle
Marche, negli Abruzzi, nella campagna romana".
Morto
Federico II, suo figlio Manfredi continuò a
utilizzare i saraceni di Lucera. Prediligeva questa
città forse ancora di più di suo padre
avendovi a lungo soggiornato nell'adolescenza e nella
giovinezza; veniva chiamato il "Sultano di Lucera".
La popolazione tutta, ma in modo particolare le compagnie
dei suoi arcieri, gli si affezionarono moltissimo
e si batterono sempre con lui sino al limite estremo.
Nel
1266 invano qualche migliaio di saraceni si sacrificò
sul passo di San Germano, presso Cassino, per impedire
a Carlo I d'Angiò di entrare nel regno. Altrettanto
sfortunato fu l'eroico sacrificio del corpo di arcieri
lucerini, diecimila sembra, nella tragica giornata
di Benevento, il 26 febbraio del 1266. Vediamo cosa
ci racconta di quella giornata un cronista dell'epoca,
Saba Malaspina: "Come al solito i saraceni,
prima di venire alle mani, estraggono i dardi dalle
faretre, e saettando improvvisamente trafiggono innumerevoli
ribaldi, e le frecce lanciate (
)
feriscono inaspettate e irrimediabili, come folgore
sulla terra. E mentre più rapidamente vengono
scoccate, si conficcano violente in diverse parti
dei corpi; piantandosi a due a due ora in testa, ora
in viso, appaiono come corna; e infisse nel petto
o tra le scapole simulano rami secchi o estensioni
di escrescenze estranee; innumerevoli corpi ribaldi
ricevono rami di questa natura e moltissimi vengono
abbattuti". Di fronte alla piega pericolosa
che stava prendendo la situazione, i cavalieri angioini
non persero tempo e caricarono a fondo: gli arcieri
saraceni, avvezzi com'erano a combattere alla spicciolata,
non furono in grado di arrestare quella valanga di
ferro, e, a quanto sembra, senza neppure tentare una
resistenza, si dispersero "come passeri quando
il nibbio piomba improvviso dal cielo".
In
sostanza i saraceni, a cavallo o a piedi, non erano
fatti per nessuna tattica che non fosse la guerriglia
e la razzia: rapidi, audaci, armati alla leggera,
perlopiù con arco e frecce eccellevano in questo
genere di guerra (peraltro molto praticato nel Medioevo).
Altrettanto indubbio è che gran parte dell'impatto
psicologico da essi esercitato (impatto certo superiore
alla loro autentica efficacia bellica), dipendesse
dal fatto che erano "infedeli", seguaci
di Maometto e in quanto tali dovevano apparire alle
popolazioni cristiane come IL NEMICO per antonomasia,
progenie di Belzebù, satanassi vomitati dall'inferno.
I saraceni si sottomisero e giurarono fedeltà
a Carlo I. Mantennero così la loro libertà
religiosa e la loro precedente personalità
giuridica, pur dovendo consegnare le armi.
La
morte in battaglia di Manfredi a Benevento segnò
il declino, ma non ancora la fine, dell'impiego in
guerra dei saraceni di Lucera. La loro sottomissione
non dovette essere delle più sincere, o il
trattamento loro riservato dagli Angioini non fu quello
sperato; due anni dopo, appena giunta in Puglia, ai
primi di febbraio del 1268, la notizia che il quindicenne
Corradino, nipote di Federico II, scendeva verso l'Italia
meridionale per riconquistare il regno di cui era
erede, Lucera si ribellò e i saraceni, memori
di aver combattuto sotto l'aquila imperiale, si gettarono
a devastare per largo tratto le terre dei loro vicini
cristiani. Corradino venne catturato e giustiziato
e Lucera posta sotto assedio e, presa per fame, capitolò
nell'agosto del 1269.
I
re angioini non rinunciarono a sfruttare a proprio
vantaggio le capacità militari dei saraceni,
anche se non si sarebbero vedute le migliaia di guerrieri
che avevano servito sotto Federico e suo figlio Manfredi.
I nuovi padroni non se ne fidavano troppo, né,
dal canto loro, i musulmani avevano con essi quel
rapporto preferenziale che li aveva legati all'imperatore.
Adesso coltivavano i loro campi e, nonostante le facilitazioni
fiscali promesse, persino quei pochi che si arruolavano
mostravano una certa tendenza a tornarsene a casa
senza permesso quando veniva il tempo del raccolto.
Negli
anni dal 1274 al 1278 vennero insediate a Lucera 140
famiglie provenzali, cui vennero concesse terre e
privilegi. Carlo I utilizzò anch'egli corpi
di arcieri che lo seguirono nelle sue imprese. Il
clima morale e politico del tempo angioino non era
però per i saraceni lo stesso di quello svevo.
La tolleranza dei nuovi dominatori non bastò
a sollevare la colonia dalla prostrazione in cui era
caduta. La produzione artigianale s'indebolì
sotto i colpi pesanti del fiscalismo angioino. La
forte falcidia di braccia da lavoro nei campi, provocata
dalle guerre, impoverì le campagne.
La
colonia venne improvvisamente aggredita e dispersa
nel 1300, per motivi che sono ritenuti soprattutto
di natura economico-finanziaria, poiché il
monarca angioino si dibatteva in formidabili difficoltà
di cassa. La vendita, come schiavi, dei maomettani
lucerini e dei beni esistenti nella loro terra, avrebbe
così risollevato le esauste finanze del sovrano.
Si propagandò perciò la turpe e crudele
azione come "ricristianizzazione" di Lucera.
Il
15 agosto del 1300 le truppe angioine entrarono in
Lucera. La lotta infuriò corpo a corpo nelle
strette e tortuose vie della città e si protrasse
fino al 24 agosto. Arrestati e concentrati nella campagna,
diecimila uomini, suddivisi in gruppi, furono inviati
in diversi mercati d'Italia per essere venduti come
schiavi. Si ignora la sorte delle migliaia che non
furono venduti. Molti si dovettero convertire al cristianesimo,
altri si dispersero e col tempo vennero assorbiti
dalla popolazione locale. Solo qualche irriducibile
preferì darsi alla macchia e per alcuni anni
ancora le campagne della Capitanata registrarono numerosi
episodi di brigantaggio alimentati dai saraceni. Il
governo angioino ricavò una somma che potrebbe
valutarsi, al valore della moneta attuale, in alcuni
milioni di Euro. Evacuata Lucera dai saraceni, la
si ripopolò e la si ricostruì, attività
che terminò dopo 11 anni.
La
Lucera medievale che possiamo vedere oggi è
quella del 1311. Del periodo saraceno restano solo
le rovine del palazzo eretto da Federico II nel 1233.
Scompariva così, agli inizi del XIV secolo,
l'ultima comunità islamica riconosciuta e organizzata
dell'Italia meridionale. Ogni traccia di essa fu cancellata,
tanto che nelle tradizioni locali ne rimase a malapena
qualche ricordo vago e sbiadito; la memoria, che ormai
sfumava nei colori della fiaba, dei minareti, dei
guerrieri e degli arcieri saraceni, dei falconieri
arabi, dei cammelli, dei leopardi addestrati alla
caccia, delle danzatrici, delle donne bellissime e
velate racchiuse nel segreto dell'harem: un
frammento di Mille e Una Notte deposto nella pianura
pugliese, otto secoli fa, da genio estroso dell'imperatore
Federico II di Svevia.
Fonti:
- Lucera
svevo-angioina. Riflessioni intorno a un momento
della sua storia - Atti della Accademia Pontiniana
- vol. XVII - Giannini - Napoli 1968
- Federico
II di Svevia e la guerra del suo tempo - Archivio
Storico Pugliese - Anno XII - Casa Editrice Cressati
- Bari 1960
- Federico
II, Imperatore. Ernst Kantorowics - Garzanti
1988
- Federico
II, un imperatore medievale. David Abulafia
- Einaudi - Torino 1993
- Gli
arcieri saraceni di Lucera al servizio di svevi
e angioini. Gian M. Giughese - Quaderni di Daedalus
IV - Stampato in proprio a cura della LIAST - Torino
- La
colonia saracena di Lucera e la sua distruzione.
Pietro Egidi - in "Archivio Storico per le
Province Napoletane" . XXXIII-XXXVI, 1911-1915
- L'evoluzione
delle milizie comunali italiane. Piero Pieri,
in "Scritti vari" - Giappichelli 1965