Indice
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La strategia della rapina
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Il riflesso ossidionale
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Gli uomini e la guerra
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Macchine del passato
Baliste,
catapulte, trabucchi, onagri, arieti, torri mobili,
gatti, cicogne, plutei, drappi, pantere, gallerie
di mina e contro-mina, mangani, petriere, ronfee,
scale e ponti mobili, corvi e altro ancora
Desidero iniziare questa
conferenza ringraziando due persone. Entrambe hanno
contribuito, in maniera diversa, alla sua realizzazione.
Il primo è un
docente universitario, Aldo A. Settia che insegna
Storia Medievale presso la Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Pavia.
Ringrazio il prof. Settia per due motivi: il primo
per aver ispirato questo mio lavoro con un testo
che ho ampiamente saccheggiato e che riporto in bibliografia
e cioè “Rapine, assedi, battaglie. La
guerra nel Medioevo”, il secondo motivo deriva
dal fatto che fu l’unico, nel lontano gennaio
1996 a rispondere ad una mia lettera inviata ad una
decina di docenti universitari lombardi, lettera nella
quale, novello amateur del Medioevo e del tiro con
l’arco, chiedevo consigli su letture, in particolare
sull’arcieria medievale. Mi rispose nel merito
dei quesiti posti, ci sentimmo per telefono e fu così
gentile da inviarmi in fotocopia una pagina di un
suo testo in risposta ad una delle mie numerose domande.
La seconda persona è
Andrea Dinetti, tecnico Enel di San Quirico d’Orcia
(SI) che è l’artefice principale del
più grande trabucco, per quanto mi risulta,
oggi esistente, e funzionante, in Italia, trabucco
che avete visto in azione nel filmato proiettato poco
fa all’inizio della conferenza. Me lo immagino
appeso ai piloni elettrici sulle dolci colline toscane
mentre pensa alla costruzione di altre macchine d’assedio.
Riporto le dimensioni di questo trabucco: altezza
con braccio scarico 8,40 m., lunghezza 6 m., peso
27 q. senza contrappeso. Scaglia proiettili dai 50
ai 100 Kg, con un carico sul contrappeso di 50 q.,
ad una distanza di 150 m.
Inizio dunque questa
conferenza partendo però al contrario, temporalmente
parlando. Non inizierò dal Medioevo ma dal
presente, parlando e mostrando le macchine da guerra
che oggi esistono e funzionano in Italia e le cui
immagini state vedendo sullo schermo.
I gruppi di ricostruzione
storica sono in continua crescita, in particolare
quelli che hanno come periodo di riferimento il Medioevo.
Oggi abbiamo, sempre secondo le mie informazioni,
ben 5 qruppi che sono in grado di schierare sul campo
macchine da guerra, funzionanti, non simulacri, e
che le usano nelle loro manifestazioni pubbliche.
Eccoli:
- Arcieri nel Tempo
(Milano): catapulta/onagro, balista, trabucco, corvo
- Quartiere Canneti,
San Quirico d’Orcia (SI): un grande trabucco
- Sole e Acciaio,
Peschia (PT): balista, trabucco e ronfea (quest’ultima
in costruzione)
- Milites Silvarum,
Belluno: un piccolo trabucco
- Arcieri delle Quattro
Castella (RE):
catapulta
So di altre macchine
in costruzione e ne parlerò certamente in occasione
della prossima conferenza.
Entriamo ora nel vivo
degli argomenti che compongono il sommario della conferenza,
argomenti che illustrerò con l’aiuto
di numerose immagini proiettate con la lavagna luminosa.
LA STRATEGIA
DELLA RAPINA
Per tutta l’età
medievale, il modo di gran lunga più diffuso
di guerreggiare consistette in scorrerie devastatrici,
generalmente limitate nel tempo e nello spazio, così
frequenti e così normali da costituire
si è calcolato almeno l’80% degli
episodi militari attestati dalle fonti. Le battaglie
furono “cerimonie eccezionali”, giudizi
di Dio da affrontare con estrema prudenza e ai quali
si giungeva soltanto quando gravi circostanze lo imponevano.
Quali che siano i motivi scatenanti, la guerra si
configura normalmente come una prova di forza in cui,
per costringere l’avversario a cedere, risulta
conveniente ricorrere non tanto a battaglie campali
quanto alla privazione dei suoi mezzi di sussistenza:
si può così parlare di una tattica o
di una strategia calcolata in cui le rapine
e le distruzioni hanno, insieme con lo scopo di scoraggiare
il nemico, anche l’intenzione di ricavare un
guadagno economico: il modello, in altre parole, rimane
la guerra primitiva protesa alla ricerca del bottino.
Ecco come i milanesi
diedero notizia ai loro alleati della grande vittoria
ottenuta a Legnano il 29 maggio del 1176 contro Federico
Barbarossa: “Vi sia noto che abbiamo riportato
sui nemici un glorioso trionfo: degli uccisi e degli
annegati non c’è numero; siamo in possesso
dello scudo, del vessillo, della croce e della lancia
dell’imperatore; nelle sue casse abbiamo trovato
molto oro e argento, e il bottino dei nemici che abbiamo
preso non crediamo possa essere calcolato da nessuno”.
Ciò che soprattutto
sollecita la combattività di ogni soldato medievale
e non dei soli mercenari è del
resto, in generale, la prospettiva dell’arricchimento
mediante il bottino o la possibilità di riscuotere
buoni riscatti. Trattare di guerra medievale, prima
di ogni altra cosa, significa quindi occuparsi delle
modalità con le quali avvenivano le azioni
di rapina e di distruzione, e dei risultati che da
esse si attendevano. Le devastazioni programmate avevano
come obiettivo di indurre una città alla resa:
tale fu la tattica adottata verso la metà dell’XI
secolo dai Normanni contro le città bizantine
dell’Italia meridionale i cui abitanti combattevano
soltanto in difesa delle proprie mura. Le città,
per le quali il territorio rappresentava un indispensabile
mezzo di sopravvivenza, non erano organizzate per
difenderlo e, nonostante la robustezza delle loro
fortificazioni, rimasero così in balia degli
invasori.
Milano fu attaccata
da Federico I una prima volta nell’agosto del
1158; dopo alcune scaramucce l’imperatore, con
la maggior parte del suo esercito dice Ottone
Morena “devastò tutte le messi
che trovò, tagliò anche le viti e gli
alberi, bruciò le case, distrusse i mulini”,
senza che i milanesi osassero uscire dalle mura. “Cavalieri
e scudieri dell’Imperatore, allora, andando
per il vescovado, per la Martesana e per il Serpio,
spogliavano tutti i castelli e i villaggi e poi li
bruciavano e distruggevano completamente”. Pochi
luoghi rimasero che non fossero del tutto rovinati,
e ai primi di settembre Milano si arrese.
Nel 1260 l’esercito
comunale fiorentino dispone di duecento guastatori
dotati di scuri (aumentabili di altre seicento unità)
retribuiti ciascuno 12 denari per ogni giorno di effettivo
lavoro; ad essi sovrintendono appositi ufficiali “ai
guasti” e hanno apposite insegne. L’obbligo
di fornire guastatori all’atto della mobilitazione
rimane normalmente valido e costante nel corso del
Trecento. Il consiglio dell’esercito perugino
operante nel 1282 contro Foligno impartisce il 5 giugno
precise disposizioni su “come deve essere fatto
il guasto e da parte di chi”. Il guasto assume
qui dunque i connotati di un’operazione accuratamente
predisposta e attuata in modo “scientifico”.
Giacomo Piccinino così
descrive la presa di un castiglione: ecco gli uomini
di Braccio da Montone superare l’antemurale
e i fossati e scalare audacemente le mura; fra essi
non vi erano solo armati “ma anche inermi e,
ciò che è incredibile a dirsi, muniti
soltanto di un sacco”. I “saccomanni”
del trecento e del quattrocento si identificano dunque
con i “ribaldi” e gli “zaffones”
che sin dal duecento erano normalmente impegnati nelle
azioni di gualdana (insieme informale di uomini, banda,
nell’età comunale) fino a confondersi
con essa. Uno dei modi di accumulare la preda complessiva
è quindi costituito dall’apporto di un
vero formicaio di singoli predoni, il più delle
volte non combattenti, che concorrono ciascuno con
il suo sacco. Tutti gli eserciti erano seguiti da
“un inquietante corteo di veicoli carichi di
oggetti eterocliti, di ladroni curvi sotto i loro
sacchi, di spogliatori di cadaveri” che “non
temevano neppure di portare via le statue dei santi”
talché nei cronisti sorge spontaneo il ricorso
all’immagine biblica di una “devastazione
di cavallette”.
Dal punto di vista dei
conquistatori ogni città grande o piccola non
era che un deposito di ricchezze e quindi un potenziale,
immenso bottino desiderato, concupito e accarezzato
con l’immaginazione nell’eventuale possibilità
di potersene impadronire. L’esempio forse più
clamoroso di un tale modo di considerare la città
come preda è dato da Costantinopoli, la più
grande città allora esistente, che i partecipanti
alla IV crociata ebbero nelle loro mani il 12 aprile
1204. Il bottino fu così grande scrive
uno dei protagonisti di quella straordinaria impresa
“che nessuno saprebbe dirvene la fine:
oro e argento e vasellame e pietre preziose e drappi
di raso e di seta e vesti di vaio e di rigetto e di
ermellino, e tutte le cose più ricche che mai
si trovassero in terra”.
IL RIFLESSO
OSSIDIONALE
Proliferazione
delle fortezze e ossessione dell’assedio
Di fronte a città
che si trasformano in fortezze, la guerra tende sempre
più a manifestarsi come guerra d’assedio,
caratteristica che rimarrà costante per molti
secoli. L’utilità delle fortificazioni
dipende in realtà più che dalla solidità
delle mura, dalla risolutezza dei difensori: le città
infatti, talora paralizzate da un eccessivo numero
di rifugiati, piuttosto che affrontare i disagi di
un assedio, preferiscono molto spesso negoziare un
riscatto.
Nella Storia dei
Longobardi di Paolo Diacono, barbaro romanizzato,
di fronte a non meno di trentacinque episodi di assedio
e conquista di luoghi fortificati, le battaglie in
campo aperto rievocate o ricordate in modo più
meno ampio non sono più di tre: tali dati confermano
dunque l’importanza complessiva che l’assedio
ha assunto rispetto ad altre forme di guerra. Egli
bene esprime un modo di sentire più generale,
tipico non solo del proprio tempo, ma anche di tempi
precedenti e successivi nei quali appare di fatto
già pienamente operante il “riflesso
ossidionale”: di fronte ad un attacco si tende,
cioè, a reagire automaticamente rinchiudendosi
con le proprie forze entro luoghi fortificati.
L’incastellamento
dei secoli X e XI non rappresenta, però, un
semplice proseguimento della tendenza alla proliferazione
dei punti fortificati in atto sin dal III secolo,
ma un fatto del tutto nuovo e originale poiché
esso si attua a cura di signori, ecclesiastici e laici,
che agiscono autonomamente dal potere centrale in
forte crisi; l’incremento numerico dei castelli
contrassegna perciò, nello stesso tempo, il
collasso della potenza imperiale carolingia e anche,
contraddittoriamente, un momento di grande sviluppo
e vivacità economica e demografica. D’allora
in poi, per molti secoli a venire, chiunque in Europa
potrà costruire castelli privati come
recita un testo famoso “per ripararsi
dai nemici, trionfare degli uguali, opprimere gli
inferiori”. Il loro numero raggiunge così
una densità senza precedenti; il valore difensivo
è, in generale, tecnicamente basso, ma viene
esaltato dalla limitatezza dei mezzi a disposizione
degli attaccanti: il “riflesso ossidionale”
è pertanto destinato a radicalizzarsi e a condizionare
il modo di combattere in Occidente ancora per mezzo
millennio. Se, per tutta l’età medievale
gran parte dell’attività bellica consistette
in azioni di razzia e di distruzione, vengono quantitativamente
subito dopo le operazioni che riguardano l’attacco
e la difesa di luoghi fortificati lasciando assai
poco spazio alle battaglie combattute in campo aperto
che in passato sono state a torto considerate come
unica “vera” forma di guerra
Le tecniche ossidionali
in Occidente
L’arte di attaccare
e di difendere le fortificazioni (poliorcetica) raggiunse
il suo livello più alto nell’età
ellenistico-romana tanto che Frontino, componendo
intorno all’anno 84 d.C. i suoi Strategemata,
riteneva che la meccanica militare avesse ormai da
lungo tempo raggiunto la perfezione e che non fosse
più possibile migliorarla. Dai tempi in cui
il trattatista terminò la sua opera il livello
della tecnologia cessò effettivamente di elevarsi
e nella tarda antichità tese anzi a diminuire;
in tale campo tuttavia la superiorità dei Romani
sui barbari non fu mai messa in discussione e le regole
allora formulate si può dire rimasero
valide, sia pure attraverso dimenticanze e parziali
recuperi, sino alla fine dell’età medievale.
Per attaccare in modo
attivo una fortificazione occorreva innanzitutto potersi
avvicinare con sicurezza, e a tale scopi i mezzi più
semplici e comuni erano i plutei o musculi
(“topolini”), cioè grandi scudi
su ruote per proteggere i tiratori che, sfidando i
colpi degli assediati, dovevano spianare il terreno
e colmare il fossato difensivo aprendo così
la strada ai mezzi più pesanti e spettacolari
incaricati di agire direttamente sulle mura.
Il primo di questi ad
entrare in azione era di solito la vinea o
“testuggine”: si trattava di un robusto
capannone ”blindato” dotato di un tetto
molto inclinato per favorire lo scivolamento dei proiettili
e delle materie incendiarie che il nemico lanciava
dall’alto; sotto di esso i minatori potevano
arrivare indenni alle mura per scalzarne le fondamenta
con appositi attrezzi, oppure per aprirvi brecce percuotendole
con l’ariete, grossa trave dalla testa ferrata
in bilico su robusti sostegni. Più imponente
era la torre mobile (“elepoli”, “turris
ambulatoria”) di altezza superiore alle mura,
montata su ruote e spinta da uomini che agivano dal
suo interno; essa era munita di ponti volanti che
consentivano di superare le mura dall’alto.
Fornite di ruote erano talora anche le scale d’assalto
perché potessero essere più facilmente
avvicinate e più difficilmente rovesciate dai
difensori. Era infine possibile giungere sulle mura
anche mediante congegni a contrappeso come la sambuca
e il tollenone, capaci di sollevare interi
drappelli di uomini armati fino all’altezza
della merlatura.
Dal momento che sia
l’attaccante sia il difensore facevano ricorso
a composizioni incendiarie, tutti i mezzi di avvicinamento,
costruiti in legno, dovevano essere protetti contro
il fuoco da pelli di bovini appena scuoiati, da strati
di terra e da materiali spugnosi imbevuti d’aceto.
Le macchine d’assalto operavano accompagnate
dal tiro delle “artiglierie”, mezzi di
grande importanza e interesse dal punto di vista meccanico;
esse, disposte in posizione arretrata, erano in grado
di far piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche.
Sotto il livello del suolo, infine, se le condizioni
del terreno lo consentivano, si potevano aprire gallerie
sia per far crollare le mura sia per sbucare di sorpresa
nel loro interno. Era consigliabile che le diverse
componenti dell’attacco agissero in sincronia
fra loro: nello stesso momento in cui le macchine
da lancio iniziavano il tiro contro la sommità
delle mura, gli arieti dovevano batterle dal basso
e i minatori attaccarle sotto il livello del suolo:
il nemico, impossibilitato così a rispondere
a tante minacce simultanee, avrebbe ceduto più
facilmente.
Non è chiaro
quanto di tali capacità degli antichi sia pervenuto
sino ai secoli dell’alto medioevo. Esiste pur
sempre la possibilità che le tecniche romane
non siano mai state completamente dimenticate. In
ogni caso, proprio intorno al VI secolo, si vennero
affermando nell’area mediterranea macchine del
tutto nuove con funzionamento a bilanciere che, rispetto
alle artiglierie antiche, non solo si presentavano
più semplici da costruire e da mantenere, ma
avevano anche una potenza considerevolmente maggiore.
I dati che per ora abbiamo a disposizione rendono
impossibile arrivare a conclusioni definitive sulla
natura, sui modi e sui tempi con cui le nuove macchine
da lancio furono adottate in Occidente, problema sul
quale gravano non poche altre incognite. Solo nella
seconda metà dell’XI secolo si rivelano
progressi significativi, consistenti essenzialmente
nel recupero di procedimenti già in uso nell’antichità
greco-romana, sia attraverso i contatti degli occidentali
con le civiltà araba e bizantina, che avevano
conservato memoria diretta di quelle pratiche, sia
riscoprendo e interpretando autonomamente la trattatistica
antica. I progressi si manifestano, forse non a caso,
lungo la linea di contatto tra la cristianità
e il mondo islamico, dalla penisola iberica alla Sicilia,
da un lato, e con il mondo bizantino dall’altro,
includendo i mari interposti.
I Normanni furono in
grado di assimilare integralmente la tecnologia d’assedio
dell’età ellenistica, con tutta probabilità
attraverso codici come quello dell’XI secolo
oggi conservato in Vaticano e verosimilmente proveniente
dalla biblioteca dei re normanni: esso contiene una
silloge di poliorcetica che va sotto il nome di Erone
di Bisanzio, vero e proprio manuale corredato da illustrazioni
sufficienti per consentire la riproduzione pratica
dei meccanismi descritti. Attraverso il raccordo sempre
attivo fra i Normanni d’Italia e di Normandia,
i progressi avvenuti in Puglia e in Sicilia si estesero
ben presto dalle rive del Mediterraneo centrale alle
sponde atlantiche: nel 1066 Guglielmo il Conquistatore
impiega infatti, nell’assedio di Londra, grandi
macchine per abbattere e scalzare le mura; Exeter
viene indotta alla resa da attacchi condotti per più
giorni, con gli stessi mezzi, sull’alto delle
mura e dal sottosuolo.
Boemondo di Altavilla,
qualche decennio dopo, certo si giovò in Palestina
delle esperienze fatte nell’Italia meridionale
per affrontare con successo, accanto ad altri guerrieri
occidentali, i grandi assedi che segnarono l’intero
corso della prima crociata da Nicea a Gerusalemme:
là dunque confluirono le conoscenze poliorcetiche
messe a punto durante le “precrociate”
europee dai Normanni, dalle città marinare
italiane e dai reduci degli assedi catalani. Con il
ritorno dei crociati in Europa le innovazioni tecniche,
arricchite dalle esperienze di Terrasanta, rifluirono
poi in Occidente.
Se ne videro risultati
significativi, per esempio, nell’investimento
di Durazzo da parte di Boemondo nell’ottobre
de 1107, nelle operazioni condotte dai Pisani alle
Baleari nel 1114, dai Milanesi a Como nel 1126, dai
crociati anglonormanni a Lisbona nel 1146 e, infine,
nei numerosi assedi che ebbero luogo, dopo la metà
del XII secolo, nell’Italia padana nelle lotte
tra Federico I e i comuni italiani e nella Francia
di Filippo Augusto. Progressi decisivi dovrebbero
essere intervenuti tra il sesto e l’ottavo decennio
del XII secolo allorché, accanto al mangano
e alla petraria, compare nell’Europa
mediterranea il “trabucco”, cioè
la macchina da getto a bilanciere, munita di contrappeso,
che conferiva nuove possibilità al vecchio
mangano e apriva prospettive di ulteriori perfezionamenti.
La prima menzione del trabucco a contrappeso comparirebbe
in area bizantina nel 1165, ma nel 1189 già
si trova in Italia settentrionale la forma diminutiva:
in quell’anno, infatti, gli uomini di Solagna
giurano fedeltà al comune di Vicenza impegnandosi
a non tirare in città “nec cum mangano,
nec trabuchello, aut cum prederia”.
Nel duecento gli sfoggi
di tecnologia non trovano più alcun cronista
disposto a stupirsi, segno evidente che la diffusione
di certe innovazioni è ormai un fatto acquisito
e la costruzione di efficaci macchine da lancio e
di avvicinamento, insieme con l’uso del fuoco
e delle gallerie di mina, sono divenute pratiche correnti.
Si spiegano così anche i numerosi insuccessi
di assedi che si verificano nel corso del secolo,
dalla crociata antialbigese nel sud della Francia
a quelli di Federico II contro le città italiane.
Per dare una nuova fondamentale scossa ai procedimenti
poliorcetici occorrerà ormai attendere l’avvento
delle armi da fuoco.
“Mirandi artifices”:
gli ingegneri militare
L’importanza allora
assunta dai detentori del sapere tecnico, rimasta
in parte viva nell’alto medioevo, tornò
a crescere, insieme col progressivo recupero dei procedimenti
poliorcetici antichi, sino a toccare il culmine nel
corso dei secoli XII e XIII. Chi erano coloro che
per tanto tempo ebbero nelle mani le sorti delle guerre?
La risposta non è facile poiché essi
poco scrissero di se stessi e gli storici raramente
li tengono in conto, e non tanto per riconoscerne
i meriti, quanto per deplorarne la doppiezza e l’inaffidabilità.
Si trattava, in generale, di artigiani, fabbri e carpentieri,
in possesso di un sapere empirico acquisito attraverso
la pratica e trasmesso quasi esclusivamente per via
orale, di padre in figlio o da maestro ad apprendista.
Al vertice della gerarchia stava “l’architetto”
(detto poi “ingegnere”) il quale, condividendo
l’esperienza dei suoi subordinati, era in grado
di organizzare e dirigere il complesso dei lavori
d’assedio. Le fonti solo occasionalmente lasciano
intravedere la loro figura, per lo più sotto
forma di uomini itineranti disposti, per necessità
o per desiderio di lucro, a mettere le proprie nozioni
di tecnologia militare a disposizione di un committente
interessato a servirsene. I tecnici vengono trascurati
dalla letteratura epica concepita a esaltazione dell’eroe
e delle sue capacità di colpire direttamente
l’avversario, solo incidentalmente, quindi,
è possibile cogliere la presenza degli “ingegneri”
nel bel mezzo di un’azione di guerra.
Fra gli inconvenienti che la professione offriva vi
era anche il pericolo di venire incidentalmente e
inaspettatamente proiettati nel vuoto al posto di
un proiettile. Si è tramandata la disavventura
accaduta nel 1232 a un “maestro” veronese
impegnato nella difesa del castello di Nogarole assediato
dai mantovani: manovrando una librilla da lui
stesso costruito, si trovò lanciato in aria
e, dopo aver percorso un notevole tragitto, cadde
miracolosamente incolume nel bel mezzo del campo nemico.
In Italia esisteva un vero e proprio mercato di tecnologia
militare che dalle città marinare italiane
dell’alto Tirreno raggiungeva da un lato le
sponde atlantiche e dall’altro l’entroterra
padano. Quando i milanesi nel 1127 decisero di porre
fine alla ormai decennale guerra contro Como, cercarono
a Genova e a Pisa gli uomini capaci di costruire le
macchine necessarie all’espugnazione della città
nemica.
Nella seconda metà
del XII secolo Pisa e Genova parteciparono con i loro
tecnici alle lotte fra i comuni italiani e Federico
Barbarossa; esse rappresentarono in Italia uno dei
momenti culminanti nello sviluppo della poliorcetica
medievale, che vide applicare nell’Europa continentale
le esperienze d’oltremare.
Il De regimine principum,
redatto da Egidio Colonna intorno al 1280, si rifà
alla trattatistica antica soprattutto attraverso il
De re militari di Vegezio.
Le vittorie della
fame
Tre sono per il Colonna
i modi di prendere una fortezza: per sete, per fame
e per battaglia. Non a caso la sete viene messa la
primo posto: se mediante diversi accorgimenti, infatti,
alla mancanza di viveri si può per un certo
tempo sopravvivere, è invece praticamente impossibile
ovviare alla sete. Chi intraprende un assedio deve
quindi innanzitutto fare in modo di privare di acqua
gli assediati.
E’ inoltre opportuno
iniziare le operazioni durante la stagione estiva,
prima che i prodotti del nuovo raccolto siano venuti
a integrare le scorte dell’anno precedente,
e quando più facilmente l’acqua si può
esaurire. Nel mondo occidentale, per buona parte del
Medioevo, infatti, l’ignoranza delle tecniche
d’assedio antiche o l’insufficienza dei
mezzi disponibili riduceva spesso l’azione degli
attaccanti ad un elementare blocco statico che mirava
a ridurre alla fame i difensori per costringerli alla
resa.
Gli assedianti che vogliono
più rapidamente avere ragione di una fortezza
consiglia Egidio Colonna se catturano
alcuni degli assediati hanno interesse non a ucciderli,
ma piuttosto a mutilarli rendendoli invalidi e a rimandarli
indietro perché contribuiscano così
a consumare più in fretta le scorte senza essere
di alcun giovamento per la difesa. Non si tratta di
una spietatezza puramente teorica: nel 1305, racconta
Giovanni Villani, i fiorentini e i lucchesi assediarono
Pistoia “e chiunque era preso che n’uscisse,
all’uom era tagliato il piè e alla femina
il naso, e ripinto dentro nella città”.
Usò accortamente e spietatamente l’arma
delle “bocche inutili” Filippo Augusto
di Francia quando nel 1203 decise di prendere per
fame il formidabile complesso di Chateau Gaillard.
In esso si erano rifugiati molti abitanti dei dintorni
e il comandante della guarnigione, ormai alle strette,
decise di espellere coloro che non erano in grado
di portare armi; il re da parte sua, rendendosi conto
che così gli assediati potevano resistere più
a lungo, non permise loro di uscire; più di
400 persone, uomini, donne e bambini, respinte dagli
uni e dagli altri, rimasero bloccate nello spazio
intermedio, costrette a vivere in grotte e a nutrirsi
d’erba od occasionalmente di qualche animale
di passaggio, così che i più morirono
di fame.
Le macchine, le artiglierie
La conquista di una
fortezza “per battaglia” esige l’impiego
di diverse macchine da lancio e d’assalto. La
riunione di più funzioni in realizzazioni definite
“mostruose” continua nel corso del
tempo come dimostrazione di virtuosismo meccanico
e, nello stesso tempo, per influire psicologicamente
sull’avversario. Tale è anche la “gatta”
allestita nel 1218 da Simone de Monfort contro i tolosani
ribelli. “Metterò nella gatta
dichiara Simone 400 dei migliori cavalieri
che sono con noi e 150 arcieri perfettamente equipaggiati,
poi la spingeremo a piedi sul fondo del fossato della
città”.
Quali erano il numero,
le prestazioni e gli effetti delle macchine da lancio
impiegate negli assedi medievali? Diciamo subito che
è difficile rispondere poiché le fonti
riportano, in genere, no dati concreti ma semplici
impressioni deformate dall’enfasi retorica e
dal desiderio di stupire. A Lisbona nell’agosto
del 1147 gli anglo-normanni erigono due “fundae
balearicae” (ovvero mangani a trazione), una
sulla riva del fiume manovrata dai marinai e l’altra
dai cavalieri; gli “artiglieri” vengono
divisi in gruppi di cento così che, a un segnale
stabilito, una “centuria” può dare
il cambio all’altra. Se davvero come
sottolinea il cronista in dieci ore furono
scagliate cinquemila pietra, la cadenza di tiro superò
un colpo al minuto. Tale performance, certo
molto faticosa per coloro che la realizzarono, mostra
quali potevano essere le prestazioni di un mangano;
non conosciamo però né il “calibro”
dei proiettili lanciati né i risultati raggiunti.
Si trattava del resto di un semplice tiro di copertura
per proteggere l’azione di coloro che nel frattempo
minavano le mura.
Le macchine sono in
grado di provocare danni preoccupanti alle strutture
murarie ma non tali da spazzare via senz’altro
le mura. Al solito i proiettili sono molto efficaci
contro le persone non sufficientemente protette. Lo
stesso Simone de Monfort fu ucciso nel giugno del
1218 da una petriera manovrata dalle donne di Tolosa:
“La pietra cadde direttamente dove occorreva;
essa colpì il conte sull’elmo d’acciaio
così fortemente che gli spezzò gli occhi,
il cervello, i denti di sopra, la fronte e le mascelle;
il conte cadde a terra molto insanguinato e livido”.
Mentre continua l’impiego
del mangano, la petriera viene lentamente sostituita
dal trabucco: Gli apparecchi vengono talora costruiti
sul posto nel corso dell’assedio, ma anche portati
al seguito dei reparti operanti, probabilmente smontati,
segno questo da un lato delle capacità tecniche
raggiunte e dall’altro dell’esistenza
di veri e propri parchi di artiglieria. Per la produzione,
la custodia e il trasporto di mezzi tanto delicati
e ingombranti era certo necessaria una complessa e
costosa organizzazione logistica; la disponibilità
di macchine da lancio veniva così a costituire
una prima discriminante, sul piano economico e tecnico,
fra la volontà di potenza e l’effettiva
capacità di conseguirla, che escludeva senz’altro
i soggetti più deboli.
L’importanza attribuita
alle macchine, e la loro relativa rarità, è
segnalata anche dai nomi propri, retorici o pittoreschi,
che venivano ad esse attribuiti: nel 1168 i faentini
disponevano di due mangani battezzati Asino
e Falcone impiegati nella conquista di Argenta.
Nel giugno del 1191, durante l’assedio di Acri,
Filippo Augusto di Francia schiera una sua eccellente
petraria chiamata Mala Vicina, contrapposta
a una macchina turca detta Mala Cognata. L’usanza
si mantiene nel tempo poiché nel 1294 gli orvietani
avevano un trabucco di nome Vattelana (cioè
“battilana”), i modenesi nel 1306 una
balista chiamata Lupa, e nomi propri
assumevano i trabucchi schierati nel 1304 da Edoardo
I d’Inghilterra contro il castello di Stirling.
Nulla di preciso è
dato conoscere sulla gittata delle macchine a contrappeso
ma possediamo qualche dato in più sul “calibro”
dei proiettili lanciati. Tra le 14 macchine schierate
nel 1249 da Ezzelino da Romano contro la rocca d’Este
dice Ronaldino da Padova ce n’erano
che “lanciavano pietre del peso di 1200 libbre
e oltre (cioè dai 405 ai 580 chili). Si ha
l’impressione che nel corso del trecento
vi sia la tendenza a
realizzare macchine sempre più potenti: i trabucchi
che nella prima metà del secolo suggeriscono
a Buridano la teoria dell’impetus gettano
infatti proiettili di 5 quintali; nel 1374 i genovesi
impiegarono all’assedio di Kyrinia, nell’isola
di Cipro, “una macchina chiamata troia”
capace di lanciare pietre dal peso che andava da 12
a 18 cantari, cioè da 570 a 850 chilogrammi;
e si ha notizia che o cernesi e i veneziani possedevano
trabucchi caricati con proiettili pesanti sino a 12
e a 14 quintali. Ma quale era in generale l’efficacia
dei trabucchi?
Senza voler negare effetti
distruttivi estesi, certo possibili, contro fortificazioni
di particolare debolezza, pare, in generale, che i
danni riguardino soprattutto le strutture abitative
interne e non la cerchia esterna delle fortezze colpite,
cosa che del resto era sufficiente a mettere i presidi
in forte disagio sino a costringerli alla resa. Vi
erano peraltro fortezze che, per la loro posizione
o per la grande robustezza delle mura, si rivelano
del tutto inattaccabili.
Grande effetto poteva
esercitare sugli assediati il numero di coloro che
li tenevano chiusi e, forse anche di più, la
vista dei macchinari posti in campo: l’apparato
ossidionale ha dunque un valore di dissuasione psicologica
forse superiore alle sue capacità di svolgere
un’azione fisica diretta. La sola minaccia di
ricorrere a tali macchine poteva avere un effetto
deterrente tale da convincere senz’altro un
presidio alla resa.
Le macchine da lancio
erano anche utilizzate per eseguire tiri, diciamo
cos’, “non convenzionali” intesi
ad ottenere effetti di natura puramente psicologica:
nel 1097 i crociati proiettano in Nicea le teste dei
nemici uccisi in uno scontro affinché i turchi
“si spaventassero maggiormente”. Nel corso
del Duecento, specialmente in Toscana e in Emilia,
si stabilì l’usanza di lanciare entro
le mura di una città assediata, con intento
di insulto e sfida, disprezzo ed irrisione, i corpi
di certi animali, soprattutto asini. Nel “manganare”
o “traboccare” un asino, all’intenzione
di dileggiare l’avversario, si univa probabilmente
un’implicita dimostrazione delle proprie capacità
tecniche dato il peso cospicuo dell’animale.
Nel 1309 i veneziani in lotta con i ferraresi, come
da tempo era uso nelle battaglie navali, ricorsero
alla proiezione di “olle piene di sterco e orina,
calce, sapone, zolfo e pece infuocati”. Eccoci
passati dal semplice dileggio ad una vera e propria
guerra “batteriologica” .
Gli attacchi
consigliano i trattatisti devono essere reiterati
senza sosta, con spiegamento di mezzi e di rumori
improvvisi, di giorno e soprattutto di notte poiché
il buio accentua l’effetto terrorizzante. Casale
Monferrato, assediato il 17 luglio del 1214, resiste
validamente sinché dice il cronista
Codagnello gli abitanti, scorgendo i nemici,
risoluti a non desistere dall’impresa, dirigersi
verso di loro armati e disposti “in schiera
strettissima” con tutti mangani, petriere, gatti,
torri mobili, ponti e più di cento scale, furono
presi dal panico e si diedero prigionieri del podestà
di Milano. Naturalmente anche il fuoco ha un valore
intimidatorio e può essere utilizzato per piegare
psicologicamente il morale dei difensori. 1121, castello
di Drezzo: visto vano ogni sforzo i com’aschi
“preparan quindi il medicato fuoco” e
Pagano Prestinari scocca una “infuocata, fiammeggiante,
luminosa saetta”; i tetti “ardono tosto
fumigando e una densa caligine s’aderge ad offuscare
il cielo”; i difensori resi trepidanti dalla
paura, subito si arrendono.
Talora interi gruppi
di fortezze cadono, per una specie di “effetto
domino”, in seguito alla paura da cui sono invasi
coloro che dovrebbero difenderle. Fenomeni simili
accaddero in Puglia e in Sicilia durante la conquista
normanna: gli invasori concentravano i loro sforzi
contro una fortezza e quando riuscivano ad averne
ragione, vi irrompevano depredandola: “Per conseguenza
riferisce Goffredo Malaterra anche i
rimanenti castelli circonvicini, vedendo ciò
che sarebbe loro toccato, spontaneamente si sottomettevano
al loro potere”.
La terra e il fuoco
“Gli assedianti
consiglia Egidio Colonna devono segretamente
scavare la terra in un certo luogo nascondendolo agli
occhi del nemico, se necessario, con una tenda o con
un edificio, e ivi aprire gallerie sotterranee, come
fanno i minatori per cercare argento o altri metalli,
più profonde di quanto lo siano i fossati della
fortezza da espugnare in modo da arrivare sotto le
mura”; queste vengono provvisoriamente sostenute
con puntelli di legno ai quali in un secondo tempo
si appicca il fuoco provocandone così il crollo.
Se la caduta avverrà verso l’esterno
si otterrà anche il riempimento dei fossati
agevolando così l’accesso agli assalitori.
Le gallerie possono anche proseguire oltre la cerchia,
in modo da sbucare direttamente nella città
o nel castello assediato in simultaneità con
la caduta delle mura.
Da tempo immemorabile
l’uso del fuoco era uno degli elementi immancabili
nell’investimento di ogni piazzaforte: l’arazzo
di Bayeux raffigura due guerrieri che, brandendo
lance portafuoco, si sforzano di incendiare la palizzata
del castello di Dinant.
Essendo le porte i punti
più vulnerabili di ogni fortificazione, esse
dovevano essere l’obiettivo preferito anche
mediante il semplice accostamento di materiali infiammabili.
Nonostante i suoi terribili effetti non risulta che
l’impiego del fuoco in guerra fosse sentito
come un atto poco cavalleresco o contrario al codice
morale corrente: non solo manca ogni condanna esplicita
di un suo uso indiscriminato, ma vediamo talora considerate
come imprese del tutto meritorie e onorevoli le azioni
con esso condotte.
La scalata, la forza,
il tradimento.
Tra i modi di impadronirsi
di una fortezza “per battaglia” il più
“comune e pubblico” dice il Colonna
consiste nell’avvicinare scale alle mura
e condurre un attacco appoggiati dal tiro dei propri
arcieri, balestrieri e frombolieri: un modo semplice
e diretto, è vero, ma pericoloso e difficile,
se non attuato di sorpresa. E’ per questo che
l’attacco mediante scalata avviene assai spesso
nelle ore notturne e scegliendo i luoghi più
accessibili e meno sorvegliati.
L’attacco per
scalata non si limita tuttavia a subdole azioni notturne,
ma comprende anche audaci imprese compiute in presenza
del nemico, assai frequenti nel corso della prima
crociata. Dei 370 assedi del XIV secolo ricordati
nelle Cronache di Froissart, nel 30% dei casi
si tenta un assalto; nel 20% si utilizzano macchine
d’assedio e si pratica una scalata, tecnica
che continua ad essere più che mai attuale
e pericolosa per gli attaccanti. Al tempo delle compagnie
di ventura si attribuiva un premio (25 fiorini ci
dice Diomede Carafa, il quale consiglia di attribuire
premi non solo “allo primo fosse stato in montare”,
ma anche al secondo e al terzo.
Il realtà la
presa di una città o di un castello “con
la forza” assumeva un rilievo innanzitutto giuridico
per il diverso trattamento cui andavano incontro i
presidi che non scendevano a patti con i vincitori.
Lo riassume brevemente nel racconto di Salimbene
da Parma l’ultimatum lanciato
da Guido di Albereto nel maggio del 1283 agli uomini
di Cavillianum rinchiusi nella pieve fortificata
da San Paolo: “Ciascuno pensi alla sua anima,
consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se
invece non accetterete e sarete presi con la forza,
sarete tutti impiccati senza misericordia”.
L’attaccante cerca
spesso al complicità all’interno della
fortezza nemica in modo da penetrarvi con l’inganno
e il tradimento. I traditori, se presi, vengono colpiti
da punizioni di esemplare ferocia allo scopo di scoraggiarne
l’esempio: nel luglio del 1287 alcuni congiurati
racconta Salimbene dovevano aprire dall’interno
le porte del castello di Reggiolo ai fuoriusciti di
Reggio; dieci vennero scoperti e riuscirono a fuggire,
ma uno di essi fu preso, torturato, appeso per le
braccia al palazzo del comune, poi decapitato, trascinato
per la pubblica via in segno di derisione e infine
bruciato; tutti i suoi congiunti furono banditi in
perpetuo. Il diacono di Sant’Antonio delle Castella
confessò “spontaneamente” e prontamente,
senza tortura” la sua intenzione di consegnare
Bianello ai fuoriusciti: “Subito gli segarono
le canne della gola e lo portarono in giro per il
borgo morto e nudo, poi lo buttarono giù dal
castello come un vile cadavere. E così fu sepolto
con la sola camicia nella chiesa di Sant’Antonino”.
A sua sorella Berta, ritenuta complice, “tagliarono
la lingua e la espulsero da Quattro Castella”.
Le risorse della
difesa
La difesa puntualizza
Egidio Colonna deve innanzitutto poter contare
sulla consistenza della fortezza basata sia sulla
natura del luogo sulla struttura e sulla disposizione
di mura, torri e fossati; ovviamente, poi, per evitare
la fame, occorre avere sufficienti scorte di acqua
e di viveri e allontanare per tempo i deboli e gli
inutili. Non meno importante, s’intende, è
la disponibilità di armi, munizioni e materiali
di ricambio. La seconda risorsa di chi si difende
va cercata nella sostanziale debolezza dell’offesa,
che assai spesso induce a non tentare neppure un assedio,
operazione di per sé lunga e costosa che richiede
non solo mezzi e spiccate capacità tecnico-organizzative,
ma anche la disponibilità di un esercito numeroso
per bloccare a lungo e il più ermeticamente
possibile la fortificazione nemica. E ciò era
più vero se si trattava di un centro abitato
e di una città di rilevanti dimensioni. Se
l’impresa accenna a prolungarsi oltre il previsto
è subito in agguato fra gli assedianti il pericolo
della “noia”. D’altra parte la necessità
di vettovagliare un grande esercito imponeva agli
assedianti le stesse preoccupazioni che si volevano
provocare negli assediati. Il fallimento dell’impresa
è spesso sanzionato dal rogo della macchine
d’assedio che l’aggressore mette in atto
prima di ritirarsi. I milanesi, abbandonando nel 1161
l’assedio di Castiglione, bruciarono mangani,
petriere e gatti; Federico I ad Alessandria, nel 1175,
ordinò di incendiare insieme con gli accampamenti
anche le torri d’assedio di legno; non diversamente
Federico II nel 1238, togliendo l’assedio a
Brescia, “fece bruciare gli edifici e i castelli
di legno”.
Le contromisure
Ad ognuna delle tecniche
adottate dall’attaccante deve corrispondere
l’adatta risposta da parte del difensore. Si
previene la possibilità di scavare gallerie
di mina mediante fossati assai profondi e possibilmente
pieni d’acqua; dove ciò sia impossibile
occorre vigilare se si vedono in atto trasporti di
terra da parte del nemico o qualunque altro indizio
che riveli la sua intenzione di scavare gallerie,
individuarne il sito e quindi rispondere con un cunicolo
di contromina.
L’acqua interviene
pure per scoprire se si stia occultamente e
silenziosamente lavorando nel sottosuolo; occorre
per questo sistemare sulle mura una bacinella. Se
la superficie del liquido in essa contenuto si increspa,
è segno che vi è sotto il nemico che
scava. Si dovrà quindi preparare una contromina
e, se possibile, deviare nel cunicolo un corso d’acqua.
Contro le macchine da
lancio e i mezzi d’assalto si reagisce innanzitutto
con il tiro delle proprie artiglierie.
Trabucchi che si affrontano
scagliandosi reciprocamente proiettili dall’alto
e dal basso delle mura si vedono negli Annali genovesi
ad illustrazione dell’assedio di Albisola del
1220.
Il crudele accorgimento
di legare gli ostaggi alla torre, già usato
dal nonno a Crema nel 1159, viene imitato da Federico
II durante l’assedio di Brescia, ma Calamandrino,
che dirigeva il tiro dei difensori, “erette
le sue macchine, lanciava pietre contro le torri e
mostrava di essere un ottimo ingegnere” riuscendo
a distruggerle senza colpire i prigionieri.
Gli artifici incendiari
Nel giugno del 1090
il castello di Brionne, in Normandia, viene incendiato
lanciando sui suoi tetti di legno frecce le
cui punte metalliche erano state rese incandescenti
sopra la forgia. Frecce incendiarie usano i com’aschi
a Drezzo, e ben note esse sono anche ai milanesi che
nel 1161 scagliano nella città di Lodi “pilottos
et sagittas igne accenso”. Materie incendiarie
venivano naturalmente lanciate anche mediante grandi
macchine da getto: Egidio Colonna descrive un’apposita
fondina costituita da catenelle di ferro, o meglio
“tessuta con ferro”, per poter lanciare
blocchi di metallo incandescente contro le macchine
nemiche. Il testo di Vegezio (IV secolo), in almeno
tre diverse occasioni, accenna al fuoco composto di
bitume, zolfo, resina, pece liquida e stoppa imbevuta
di olio “incendiario”. Si tratta, in generale,
di materiali di uso più o meno comune in grado
di agevolare la combustione, fra i quali ricorrono
con particolare frequenza la pece e lo zolfo. Durante
la prima crociata i turchi si servono regolarmente
di un fuoco detto “greco” che il cronista
Alberto di Aquisgrana ricorda in più occasioni
come composto di “grasso, olio, pece, zolfo”
e del tutto inestinguibile con l’acqua. I senesi,
almeno dal 1230, sapevano probabilmente lanciare il
loro fuoco pennace mediante i cosiddetti “tomboli”:
si trattava verosimilmente di razzi costituiti da
tubi di carta arrotolata e ripieni di “materie
resinose, oli, bitumi e forse anche polvere pirica”
che al momento dell’accensione producevano uno
“tombolo”, cioè uno scoppio.
Gallerie di fuga
L’ultima risorsa
dell’assediato che si vede ormai alle strette
e senza speranza di resistere, ma che non intende
arrendersi, è la fuga silenziosa nel cuore
della notte. Tali fughe avvengono di solito calandosi
dalle mura o aprendo brecce alla loro base o utilizzando
lunghe gallerie, precedentemente costruite che sbucano
in un bosco fuori dalle mura (come nel 1385, castello
di Pechpeyroux, Francia, ci racconta Froissart).
UOMINI CONTRO
Lo scarseggiare di battaglie
in campo aperto imponeva l’esigenza di avere
dei surrogati. Questa fu la sfida lanciata dai milanesi
e dai loro alleati nel giugno del 1295 a un esercito
cremonese chiuso in Lodi: essi si avvicinarono “sino
alla distanza di quattro colpi di balestra e anche
fino ai fossati, suonando le trombe e gridando: ‘Uscite
fuori, ruffiani di Cremona! Uscite fuori fanfaroni,
e venite a combattere!’ Ma gli sfidati non osarono
uscire. I milanesi rimasero fino a mezzogiorno e poi
se ne ritornarono incolumi” mentre i cremonesi,
a loro volta, col favore della notte si ritirarono.
Il bell’ordinamento
delle schiere poteva apparire addirittura più
importante del loro stesso impiego sul campo: mostrare
di fronte all’avversario ordine, compattezza
e disciplina era infatti sufficiente per indurlo,
se non ad arrendersi, almeno a ritirarsi. Non di rado
una campagna di guerra poteva così risolversi
in una semplice esibizione di forza nella quale il
numero, il perfetto inquadramento, lo sfavillare delle
armi e delle armature, la ricchezza dell’apparato,
i colori, il numero delle bandiere, il coro delle
voci e il risuonare degli strumenti musicali acquistavano
un valore di pressione psicologica di grande efficacia:
un buon capitano mostrava di essere tale innanzitutto
mediante l’abile regia della sua troupe.
Che cosa provava un
fante o un cavaliere degli eserciti comunali italiani
al momento di schierarsi in campo aperto di fronte
al nemico?
Si trattava, è
bene ricordarlo, di combattenti non professionisti
periodicamente distolti, per qualche giorno o tutt’al
più per qualche settimana, dalle attività
lavorative quotidiane. I rari resoconti a noi noti
parlano del comportamento collettivo dei combattenti
per lo più tenendo conto dei risultati da essi
conseguiti.
1259, milizia comunale
di Chieri (TO). I consoli devono far procedere in
prima fila, davanti al gonfalone, i tiratori con archi
e balestre tese, e frecce e quadrelli incoccati; segue
un reparto di quattrocento uomini selezionati in base
alla migliore qualità dell’armamento,
dotati cioè di corazza di maglia o di lama
d’acciaio e di copricapo metallico; viene poi
il grosso del “popolo” tallonato da un
drappello di venticinque degli uomini migliori i quali
hanno il compito di “restringere” gli
altri e di impedirne la fuga: “e se qualcuno
fuggisse si aggiunge incorrerà
nella pena di 50 lire, e i predetti 25 potranno impunemente
percuotere tutti i fuggitivi e imporre loro la pena
affinché stiano fermi e tengano il volto e
le armi rivolti verso i nemici.” A Bologna e
a Tortona, il nome dei disertori doveva essere scritto,
e le loro fattezze dipinte, nel palazzo comunale,
e ciò comportava l’infamia e l’esclusione
perpetua da ogni pubblico ufficio; in altre città,
come a Mantova, l’entità della punizione
negli averi e nella persona era invece affidata all’arbitrio
del podestà, e per frate Giordano da Pisa “chie
dalla sua ischiera esce si è bando il piede”.
Oltre al podestà e ai suoi ufficiali, anche
i “di stringitori” e i “guardaschiera”
per esser in grado di assolvere il loro compito, erano
muniti di bastone il quale diventava quindi uno strumento
tutt’altro che metaforico. Imporre, se necessario,
alle reclute di stare in riga a colpi di bastone e
con la minaccia di gravissime punizioni, al di là
del valore “addestrativi” che ciò
assumeva, poteva dunque avere un senso anche sul piano
tattico, proprio in funzione della necessità
che l’esercito aveva di “apparire”,
fatto talora sufficiente per avere ragione del nemico.
I primi a fuggire erano
normalmente i cavalieri: il cavallo, mezzo eccellente
per l’attacco, serve altrettanto bene per sottrarsi
al pericolo con rapide e vergognose fughe. Il cavaliere,
infantilmente fiero della sua armatura luccicante
e dei suoi pannoncelli colorati, non era sempre propenso
a rischiare la vita, così che nei momenti più
delicati spesso lasciava il fante a morire da solo
sul campo di battaglia.
TEMPI DI GUERRA
Le necessità
pratiche presiedevano all’organizzazione di
una campagna militare: la temperatura doveva consentire
di vivere all’addiaccio o sotto le tende, era
opportuno muoversi su strade sgombre da neve e fango,
era bene che gli animali da trasporto disponessero
di foraggio fresco, che i mari e i fiumi fossero navigabili,
tutte condizioni che non si verificavano prima dell’avanzata
primavera. Risultato: almeno il 70% delle imprese
di cui le fonti hanno conservato memoria, appare concentrata
da maggio ad agosto. La primavera, insieme con gli
eserciti, muove i pellegrini, i mercanti diretti alle
fiere, giudici e ufficiali avviati a rendere la giustizia
itinerante e gli ecclesiastici chiamati ai loro sinodi.
Nella seconda metà del XIII secolo, Salimbene
da Parma scrive:” Il tempo in cui i re sogliono
procedere alle guerre si chiama maggio, che è
tempo tranquillo, giocondo e temperato, nel quale
canta l’usignolo” e aggiunge “e
l’erba è abbondante per i buoi e per
i cavalli”.
L’abitudine di
riprendere la lotta “subito dopo il raccolto”
è data come corrente nel mondo comunale. Se
si prevedeva di assediare una fortezza, l’estate
era senz’altro la stagione più adatta
avendo però cura consiglia Egidio Colonna
di porre il blocco prima del raccolto, quando
il nemico non ha ancora potuto rinnovare il suo vettovagliamento.
Nel pieno dell’estate, poi, le scorte d’acqua
degli assediati si esauriscono più velocemente
senza essere reintegrate da piogge, i fossati difensivi
rimangono secchi e le intemperie non molestano gli
assedianti acquartierati all’aperto. L’impostazione
stagionale della guerra e il ciclo dei lavori agricoli
tendevano a interferire e a condizionarsi a vicenda
in diversi modi. Durante i frequenti periodi di insicurezza
che travagliarono in Italia l’intera età
comunale, i cittadini in armi si impegnavano a proteggere
i contadini durante i lavori agricoli più importanti
dai quali città e contado traevano i mezzi
indispensabili per la loro sussistenza.
D’altronde i momenti
giudicati militarmente più propizi, e quindi
la mobilitazione degli uomini nell’esercito,
venivano spesso a coincidere con i lavori più
importanti e impegnativi dell’annata agraria
creando così gravi interferenze con la condotta
delle operazioni. Nel 1016 il vescovo di Vercelli
Leone, confessava di aver assediato per quindici giorni
il castello di Orba, nel Piemonte sudorientale, senza
poterlo prendere perché gli uomini ai suoi
ordini “minacciavano continuamente di andarsene
a cause della vendemmia”.
Nel settembre del 1243,
durante uno scontro sul Mincio, molti cavalli morirono
soffocati dal calore, e la spedizione compiuta dai
milanesi a Lodi nel luglio del 1250 passò addirittura
alla storia come “l’esercito della Caldana”
poiché durante il ritorno, sia per la polvere
che per la calura, più di duecento fanti vi
lasciarono la vita; e morti per il caldo vi furono
anche nel giugno del 1266 tra i bresciani e i mantovani
che assediavano il castello cremonese di Covo.
L’assedio posto a Brescia da Federico II nell’estate
del 1238 subì le conseguenze di un’epidemia
provocata secondo quanto tramanda un cronista
cremonese dall’immenso numero di mosche:
a malapena “si riusciva a mangiare senza ingoiarne
o insieme al cibo o perché volavano direttamente
in bocca”, e “la sommità dei padiglioni
e delle altre tende sembrava tinta del nero colore
della notte per la quantità di insetti che
vi stavano posati.” Il disagio dell’uomo
di guerra era aumentato durante la stagione estiva
dalla necessità di portare la corazza che nell’età
medievale, non meno che nell’antichità
greca, costituiva un problema molto serio sia per
il peso, sia per la mancanza di ventilazione: “le
piastre metalliche compatte e senza aperture, non
proteggevano né dal caldo né dal freddo”
e d’estate, in particolare, gli abiti portati
sotto la corazza “si inzuppavano rapidamente
di sudore rendendola insopportabile”.
In inverno i problemi
erano ugualmente insormontabili. I cavalieri francesi
che tentarono di porre l’assedio a Cherbourg
nell’inverno del 1378-79, di fronte al freddo
terribile, allo sprofondare dei cavalli e alla scarsità
di viveri conclusero “che non era né
la stagione né il tempo adatto per porre assedi”
e senz’altro rinunciarono all’impresa.
Scrive l’Anonimo
Romano sugli scontri del 1339 tra Azzone Visconti
e suo cugino Lodrisio tra Legnano e Parabiago: “Lo
tempo era de vierno, e era sì esmesuratamente
granne la neve che non lassava fare vattaglia ordinata.
Fi allo iuniuocchio omo se affonnava nella neve. Granne
era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano
imbrattate”. In simili condizioni “quarantaquattro
centinaia de uomini fuoro occisi, senza li affocati
in fiume e nelli gorghi della neve” che impedì
anche la fuga degli sconfitti.
La temperatura e gli
agenti atmosferici influenzavano fortemente l’efficienza
della armi da lancio: le balestre di corno “servono
meglio in regione secca che umida e hanno maggiore
gittata quando fa fredde rispetto a quando fa caldo”
e l’esperto sa bene che tutte le balestre, “sia
di corno sia di legno, vanno tenute costantemente
al riparo dal sole, dalla pioggia e finanche dalla
rugiada”.
La notte, se obbliga
alla sospensione dei combattimenti tra armati è
particolarmente adatta per ogni genere di azione di
sorpresa: si possono vettovagliare fortezze assediate
o introdurvi almeno propri agenti; il buio favorisce
l’evasione sia di prigionieri sia di guarnigioni
assediate che, invece di arrendersi, eludono all’ultimo
momento il nemico con la fuga.
IL CORPO DEL
SOLDATO
In un mondo in cui il
pericolo della fame era costante, il passaggio di
un esercito numeroso era sufficiente a provocare carestie
“artificiali” le cui componenti erano
nello stesso tempo la causa e le vittime, e che inevitabilmente
coinvolgevano l’intera popolazione. Il quadro
alimentare offerto dai consigli di Egidio Romano per
il vettovagliamento di una fortezza che si propone
di resistere ad un assedio è il seguente: è
necessario disporre di acqua di fonte, di pozzo o
di cisterna, certo, ma anche di grandi quantità
di aceto e di vino “perché con il bere
solo acqua i guerrieri non si debilitino”. Oltre
ai cereali panificabili (frumento, avena, orzo, miglio
che si conserva a lungo), occorrono il sale e la carne.
In caso di prevedibile necessità sarà
giocoforza necessario nutrirsi di cibi solitamente
ritenuti non commestibili.
Il vino viene normalmente
considerato bevanda indispensabile per i combattenti,
sia per il valore nutritivo sia per le sue qualità
igieniche rispetto all’acqua; il fatto che esso
venisse distribuito alla truppa nei giorni di combattimento
potrebbe far pensare alla ricerca di una funzione
eccitante.
E’ molto probabile
che molti soldati si gettassero nella mischia nient’affatto
lucidi, anzi completamente ubriachi.
Le fonti scritte dei
secoli XII e XII consentono di abbozzare una traumatologia
del combattente a cavallo ben al di là della
dismisura offerta dai racconti epici. L’impiego
della spada che, al contrario della rapidità
del colpo di lancia, può essere più
volte reiterato, comporta una prevalenza di ferite
alla testa. La protezione offerta dall’elmo
e dallo scudo serve certo ad attenuare gli effetti
dei fendenti che comunque riescono spesso a raggiungere
il viso, la fronte o la mascella dell’avversario.
La spada, vibrata dall’alto in basso, può
colpire con una certa facilità, dopo la testa,
le spalle, le anche, le braccia e, più specialmente,
il braccio destro. A parte la frattura del cranio,
tutte le ferite inferte, pur comportando effusione
di sangue, solo raramente risultano mortali.
Le fonti scritte del
pieno Medioevo occidentale sono riluttanti a perdere
delle ferite inferte ai cavalieri dalle armi da getto,caso
che doveva essere invece frequentissimo soprattutto
negli scontri collettivi e durante gli assedi. Almeno
dall’XI secolo in poi, quando venne incrementandosi
l’uso della balestra, gli effetti delle frecce
dovevano essere spesso letali nonostante la protezione
della corazza, e non troppo diversi erano quelli dell’arco
composito che gli occidentali sperimentarono su di
se durante la prima crociata. Non si deve peraltro
ritenere che ogni colpo giunto al bersaglio riuscisse
senz’altro mortale poiché l’esito
dipendeva, oltre che dalla protezione di cui si era
muniti, anche dalla distanza e dalla posizione da
cui il dardo era scoccato.
Chirurghi famosi si
impegnarono per mettere a punto metodi appropriati
per l’estrazione delle frecce e per la cura
dei loro effetti lasciandone ampia traccia nella trattatistica
del XII e XIII secolo. L’arazzo di Bayeux ci
mostra Aroldo d’Inghilterra nel momento in cui
ad Hastings riceve la freccia mortale in un occhio.
Il Liber in honorem Augusti di Pietro da Eboli
raffigura il ferimento del conte Riccardo di Acerra
avvenuto nel 1191 durante l’assedio di Napoli:
mentre si sporgeva dalle mura egli ebbe la faccia
trapassata da una guancia all’altra; segue la
scena in cui un chirurgo, assistito da due donne che
reggono piatti e ampolle, impugna la freccia per estrarla
dalla ferita.
CONCLUSIONI
Voglio concludere questa
lunga galoppata nel Medioevo con la breve cronaca
di un episodio accaduto nel XVI secolo, lontano dall’epoca
medievale e lontano dal continente che vide scorrere
l‘epoca medievale.
“Dopo circa
tre mesi di assedio intorno a Tenochtitlàn,
odierna Città del Messico, le munizioni per
le artiglierie spagnole iniziavano ormai a scarseggiare.
A quel punto un semplice soldato, tal Stelo, reduce
dalla campagna per la conquista del regno di Napoli,
si presentò a Cortes affermando di essere capace
di costruire un trabocco, avendolo visto fare in Italia,
in modo da poter continuare il bombardamento alla
disgraziata capitale atzeca. L’offerta, manco
a dirlo, fu entusiasticamente accettata, ed in pochi
giorni, sotto gli sguardi atterriti degli assediati
ed incuriositi dei commilitoni, l’improvvisato
ingegnere eresse la sua macchina. Caricatala ed armatala
con un grosso pietrone nella fionda, rimosse l’arresto:
con violenza inimmaginabile il braccio ruotò
verso l’alto, spezzando uno degli ancoraggi
della fionda. Questa, per conseguenza, si aprì
prematuramente lanciando verticalmente il macigno,
che raggiunta una discreta quota, piombò giù
esattamente sulla macchina, schiantandola!”
Si concludeva così
ingloriosamente la lunga esistenza delle artiglierie
meccaniche: quasi venti secoli e ben tre continenti
separavano in quel giorno d’agosto del 1521
a Città del Messico gli estremi della vicenda,
premessa basilare dell’attuale civiltà
tecnologica. Nel bene e nel male.
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