Contributi

GUERRA D'ASSEDIO E MACCHINE DA GUERRA NEL MEDIOEVO

Indice

- La strategia della rapina

- Il riflesso ossidionale

- Gli uomini e la guerra

- Macchine del passato

Baliste, catapulte, trabucchi, onagri, arieti, torri mobili, gatti, cicogne, plutei, drappi, pantere, gallerie di mina e contro-mina, mangani, petriere, ronfee, scale e ponti mobili, corvi e altro ancora


Desidero iniziare questa conferenza ringraziando due persone. Entrambe hanno contribuito, in maniera diversa, alla sua realizzazione.

Il primo è un docente universitario, Aldo A. Settia che insegna Storia Medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia. Ringrazio il prof. Settia per due motivi: il primo per aver ispirato questo mio lavoro con un  testo che ho ampiamente saccheggiato e che riporto in bibliografia e cioè “Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo”, il secondo motivo deriva dal fatto che fu l’unico, nel lontano gennaio 1996 a rispondere ad una mia lettera inviata ad una decina di docenti universitari lombardi, lettera nella quale, novello amateur del Medioevo e del tiro con l’arco, chiedevo consigli su letture, in particolare sull’arcieria medievale. Mi rispose nel merito dei quesiti posti, ci sentimmo per telefono e fu così gentile da inviarmi in fotocopia una pagina di un suo testo in risposta ad una delle mie numerose domande.

La seconda persona è Andrea Dinetti, tecnico Enel di San Quirico d’Orcia (SI) che è l’artefice principale del più grande trabucco, per quanto mi risulta, oggi esistente, e funzionante, in Italia, trabucco che avete visto in azione nel filmato proiettato poco fa all’inizio della conferenza. Me lo immagino appeso ai piloni elettrici sulle dolci colline toscane mentre pensa alla costruzione di altre macchine d’assedio. Riporto le dimensioni di questo trabucco: altezza con braccio scarico 8,40 m., lunghezza 6 m., peso 27 q. senza contrappeso. Scaglia proiettili dai 50 ai 100 Kg, con un carico sul contrappeso di 50 q., ad una distanza di 150 m.

Inizio dunque questa conferenza partendo però al contrario, temporalmente parlando. Non inizierò dal Medioevo ma dal presente, parlando e mostrando le macchine da guerra che oggi esistono e funzionano in Italia e le cui immagini state vedendo sullo schermo.

I gruppi di ricostruzione storica sono in continua crescita, in particolare quelli che hanno come periodo di riferimento il Medioevo. Oggi abbiamo, sempre secondo le mie informazioni, ben 5 qruppi che sono in grado di schierare sul campo macchine da guerra, funzionanti, non simulacri, e che le usano nelle loro manifestazioni pubbliche.

Eccoli: 

  1. Arcieri nel Tempo (Milano): catapulta/onagro, balista, trabucco, corvo
  2. Quartiere Canneti, San Quirico d’Orcia (SI): un grande trabucco
  3. Sole e Acciaio, Peschia (PT): balista, trabucco e ronfea (quest’ultima in costruzione)
  4. Milites Silvarum, Belluno: un piccolo trabucco
  5. Arcieri delle Quattro Castella (RE): catapulta

So di altre macchine in costruzione e ne parlerò certamente in occasione della prossima conferenza.

Entriamo ora nel vivo degli argomenti che compongono il sommario della conferenza, argomenti che illustrerò con l’aiuto di numerose immagini proiettate con la lavagna luminosa.

LA STRATEGIA DELLA RAPINA 

Per tutta l’età medievale, il modo di gran lunga più diffuso di guerreggiare consistette in scorrerie devastatrici, generalmente limitate nel tempo e nello spazio, così frequenti e così normali da costituire – si è calcolato – almeno l’80% degli episodi militari attestati dalle fonti. Le battaglie furono “cerimonie eccezionali”, giudizi di Dio da affrontare con estrema prudenza e ai quali si giungeva soltanto quando gravi circostanze lo imponevano. Quali che siano i motivi scatenanti, la guerra si configura normalmente come una prova di forza in cui, per costringere l’avversario a cedere, risulta conveniente ricorrere non tanto a battaglie campali quanto alla privazione dei suoi mezzi di sussistenza: si può così parlare di una tattica o di una strategia  calcolata in cui le rapine e le distruzioni hanno, insieme con lo scopo di scoraggiare il nemico, anche l’intenzione di ricavare un guadagno economico: il modello, in altre parole, rimane la guerra primitiva protesa alla ricerca del bottino.

Ecco come i milanesi diedero notizia ai loro alleati della grande vittoria ottenuta a Legnano il 29 maggio del 1176 contro Federico Barbarossa: “Vi sia noto che abbiamo riportato sui nemici un glorioso trionfo: degli uccisi e degli annegati non c’è numero; siamo in possesso dello scudo, del vessillo, della croce e della lancia dell’imperatore; nelle sue casse abbiamo trovato molto oro e argento, e il bottino dei nemici che abbiamo preso non crediamo possa essere calcolato da nessuno”.

Ciò che soprattutto sollecita la combattività di ogni soldato medievale – e non dei soli mercenari – è del resto, in generale, la prospettiva dell’arricchimento mediante il bottino o la possibilità di riscuotere buoni riscatti. Trattare di guerra medievale, prima di ogni altra cosa, significa quindi occuparsi delle modalità con le quali avvenivano le azioni di rapina e di distruzione, e dei risultati che da esse si attendevano. Le devastazioni programmate avevano come obiettivo di indurre una città alla resa: tale fu la tattica adottata verso la metà dell’XI secolo dai Normanni contro le città bizantine dell’Italia meridionale i cui abitanti combattevano soltanto in difesa delle proprie mura. Le città, per le quali il territorio rappresentava un indispensabile mezzo di sopravvivenza, non erano organizzate per difenderlo e, nonostante la robustezza delle loro fortificazioni, rimasero così in balia degli invasori.

Milano fu attaccata da Federico I una prima volta nell’agosto del 1158; dopo alcune scaramucce l’imperatore, con la maggior parte del suo esercito – dice Ottone Morena –“devastò tutte le messi che trovò, tagliò anche le viti e gli alberi, bruciò le case, distrusse i mulini”, senza che i milanesi osassero uscire dalle mura. “Cavalieri e scudieri dell’Imperatore, allora, andando per il vescovado, per la Martesana e per il Serpio, spogliavano tutti i castelli e i villaggi e poi li bruciavano e distruggevano completamente”. Pochi luoghi rimasero che non fossero del tutto rovinati, e ai primi di settembre Milano si arrese.

Nel 1260 l’esercito comunale fiorentino dispone di duecento guastatori dotati di scuri (aumentabili di altre seicento unità) retribuiti ciascuno 12 denari per ogni giorno di effettivo lavoro; ad essi sovrintendono appositi ufficiali “ai guasti” e hanno apposite insegne. L’obbligo di fornire guastatori all’atto della mobilitazione rimane normalmente valido e costante nel corso del Trecento. Il consiglio dell’esercito perugino operante nel 1282 contro Foligno impartisce il 5 giugno precise disposizioni su “come deve essere fatto il guasto e da parte di chi”. Il guasto assume qui dunque i connotati di un’operazione accuratamente predisposta e attuata in modo “scientifico”.

Giacomo Piccinino così descrive la presa di un castiglione: ecco gli uomini di Braccio da Montone superare l’antemurale e i fossati e scalare audacemente le mura; fra essi non vi erano solo armati “ma anche inermi e, ciò che è incredibile a dirsi, muniti soltanto di un sacco”. I “saccomanni” del trecento e del quattrocento si identificano dunque con i “ribaldi” e gli “zaffones” che sin dal duecento erano normalmente impegnati nelle azioni di gualdana (insieme informale di uomini, banda, nell’età comunale) fino a confondersi con essa. Uno dei modi di accumulare la preda complessiva è quindi costituito dall’apporto di un vero formicaio di singoli predoni, il più delle volte non combattenti, che concorrono ciascuno con il suo sacco. Tutti gli eserciti erano seguiti da “un inquietante corteo di veicoli carichi di oggetti eterocliti, di ladroni curvi sotto i loro sacchi, di spogliatori di cadaveri” che “non temevano neppure di portare via le statue dei santi” talché nei cronisti sorge spontaneo il ricorso all’immagine biblica di una “devastazione di cavallette”.

Dal punto di vista dei conquistatori ogni città grande o piccola non era che un deposito di ricchezze e quindi un potenziale, immenso bottino desiderato, concupito e accarezzato con l’immaginazione nell’eventuale possibilità di potersene impadronire. L’esempio forse più clamoroso di un tale modo di considerare la città come preda è dato da Costantinopoli, la più grande città allora esistente, che i partecipanti alla IV crociata ebbero nelle loro mani il 12 aprile 1204. Il bottino fu così grande – scrive uno dei protagonisti di quella straordinaria impresa – “che nessuno saprebbe dirvene la fine: oro e argento e vasellame e pietre preziose e drappi di raso e di seta e vesti di vaio e di rigetto e di ermellino, e tutte le cose più ricche che mai si trovassero in terra”.

IL RIFLESSO OSSIDIONALE

Proliferazione delle fortezze e ossessione dell’assedio

Di fronte a città che si trasformano in fortezze, la guerra tende sempre più a manifestarsi come guerra d’assedio, caratteristica che rimarrà costante per molti secoli. L’utilità delle fortificazioni dipende in realtà più che dalla solidità delle mura, dalla risolutezza dei difensori: le città infatti, talora paralizzate da un eccessivo numero di rifugiati, piuttosto che affrontare i disagi di un assedio, preferiscono molto spesso negoziare un riscatto.

Nella Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, barbaro romanizzato, di fronte a non meno di trentacinque episodi di assedio e conquista di luoghi fortificati, le battaglie in campo aperto rievocate o ricordate in modo più meno ampio non sono più di tre: tali dati confermano dunque l’importanza complessiva che l’assedio ha assunto rispetto ad altre forme di guerra. Egli bene esprime un modo di sentire più generale, tipico non solo del proprio tempo, ma anche di tempi precedenti e successivi nei quali appare di fatto già pienamente operante il “riflesso ossidionale”: di fronte ad un attacco si tende, cioè, a reagire automaticamente rinchiudendosi con le proprie forze entro luoghi fortificati.

L’incastellamento dei secoli X e XI non rappresenta, però, un semplice proseguimento della tendenza alla proliferazione dei punti fortificati in atto sin dal III secolo, ma un fatto del tutto nuovo e originale poiché esso si attua a cura di signori, ecclesiastici e laici, che agiscono autonomamente dal potere centrale in forte crisi; l’incremento numerico dei castelli contrassegna perciò, nello stesso tempo, il collasso della potenza imperiale carolingia e anche, contraddittoriamente, un momento di grande sviluppo e vivacità economica e demografica. D’allora in poi, per molti secoli a venire, chiunque in Europa potrà costruire castelli privati – come recita un testo famoso –“per ripararsi dai nemici, trionfare degli uguali, opprimere gli inferiori”. Il loro numero raggiunge così una densità senza precedenti; il valore difensivo è, in generale, tecnicamente basso, ma viene esaltato dalla limitatezza dei mezzi a disposizione degli attaccanti: il “riflesso ossidionale” è pertanto destinato a radicalizzarsi e a condizionare il modo di combattere in Occidente ancora per mezzo millennio. Se, per tutta l’età medievale gran parte dell’attività bellica consistette in azioni di razzia e di distruzione, vengono quantitativamente subito dopo le operazioni che riguardano l’attacco e la difesa di luoghi fortificati lasciando assai poco spazio alle battaglie combattute in campo aperto che in passato sono state a torto considerate come unica “vera” forma di guerra 

Le tecniche ossidionali in Occidente

L’arte di attaccare e di difendere le fortificazioni (poliorcetica) raggiunse il suo livello più alto nell’età ellenistico-romana tanto che Frontino, componendo intorno all’anno 84 d.C. i suoi Strategemata, riteneva che la meccanica militare avesse ormai da lungo tempo raggiunto la perfezione e che non fosse più possibile migliorarla. Dai tempi in cui il trattatista terminò la sua opera il livello della tecnologia cessò effettivamente di elevarsi e nella tarda antichità tese anzi a diminuire; in tale campo tuttavia la superiorità dei Romani sui barbari non fu mai messa in discussione e le regole allora formulate – si può dire –rimasero valide, sia pure attraverso dimenticanze e parziali recuperi, sino alla fine dell’età medievale.

Per attaccare in modo attivo una fortificazione occorreva innanzitutto potersi avvicinare con sicurezza, e a tale scopi i mezzi più semplici e comuni erano i plutei o musculi (“topolini”), cioè grandi scudi su ruote per proteggere i tiratori che, sfidando i colpi degli assediati, dovevano spianare il terreno e colmare il fossato difensivo aprendo così la strada ai mezzi più pesanti e spettacolari incaricati di agire direttamente sulle mura.

Il primo di questi ad entrare in azione era di solito la vinea o “testuggine”: si trattava di un robusto capannone ”blindato” dotato di un tetto molto inclinato per favorire lo scivolamento dei proiettili e delle materie incendiarie che il nemico lanciava dall’alto; sotto di esso i minatori potevano arrivare indenni alle mura per scalzarne le fondamenta con appositi attrezzi, oppure per aprirvi brecce percuotendole con l’ariete, grossa trave dalla testa ferrata in bilico su robusti sostegni. Più imponente era la torre mobile (“elepoli”, “turris ambulatoria”) di altezza superiore alle mura, montata su ruote e spinta da uomini che agivano dal suo interno; essa era munita di ponti volanti che consentivano di superare le mura dall’alto. Fornite di ruote erano talora anche le scale d’assalto perché potessero essere più facilmente avvicinate e più difficilmente rovesciate dai difensori. Era infine possibile giungere sulle mura anche mediante congegni a contrappeso come la sambuca e il tollenone, capaci di sollevare interi drappelli di uomini armati fino all’altezza della merlatura.

Dal momento che sia l’attaccante sia il difensore facevano ricorso a composizioni incendiarie, tutti i mezzi di avvicinamento, costruiti in legno, dovevano essere protetti contro il fuoco da pelli di bovini appena scuoiati, da strati di terra e da materiali spugnosi imbevuti d’aceto. Le macchine d’assalto operavano accompagnate dal tiro delle “artiglierie”, mezzi di grande importanza e interesse dal punto di vista meccanico; esse, disposte in posizione arretrata, erano in grado di far piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche. Sotto il livello del suolo, infine, se le condizioni del terreno lo consentivano, si potevano aprire gallerie sia per far crollare le mura sia per sbucare di sorpresa nel loro interno. Era consigliabile che le diverse componenti dell’attacco agissero in sincronia fra loro: nello stesso momento in cui le macchine da lancio iniziavano il tiro contro la sommità delle mura, gli arieti dovevano batterle dal basso e i minatori attaccarle sotto il livello del suolo: il nemico, impossibilitato così a rispondere a tante minacce simultanee, avrebbe ceduto più facilmente.

Non è chiaro quanto di tali capacità degli antichi sia pervenuto sino ai secoli dell’alto medioevo. Esiste pur sempre la possibilità che le tecniche romane non siano mai state completamente dimenticate. In ogni caso, proprio intorno al VI secolo, si vennero affermando nell’area mediterranea macchine del tutto nuove con funzionamento a bilanciere che, rispetto alle artiglierie antiche, non solo si presentavano più semplici da costruire e da mantenere, ma avevano anche una potenza considerevolmente maggiore. I dati che per ora abbiamo a disposizione rendono impossibile arrivare a conclusioni definitive sulla natura, sui modi e sui tempi con cui le nuove macchine da lancio furono adottate in Occidente, problema sul quale gravano non poche altre incognite. Solo nella seconda metà dell’XI secolo si rivelano progressi significativi, consistenti essenzialmente nel recupero di procedimenti già in uso nell’antichità greco-romana, sia attraverso i contatti degli occidentali con le civiltà araba e bizantina, che avevano conservato memoria diretta di quelle pratiche, sia riscoprendo e interpretando autonomamente la trattatistica antica. I progressi si manifestano, forse non a caso, lungo la linea di contatto tra la cristianità e il mondo islamico, dalla penisola iberica alla Sicilia, da un lato, e con il mondo bizantino dall’altro, includendo i mari interposti.

I Normanni furono in grado di assimilare integralmente la tecnologia d’assedio dell’età ellenistica, con tutta probabilità attraverso codici come quello dell’XI secolo oggi conservato in Vaticano e verosimilmente proveniente dalla biblioteca dei re normanni: esso contiene una silloge di poliorcetica che va sotto il nome di Erone di Bisanzio, vero e proprio manuale corredato da illustrazioni sufficienti per consentire la riproduzione pratica dei meccanismi descritti. Attraverso il raccordo sempre attivo fra i Normanni d’Italia e di Normandia, i progressi avvenuti in Puglia e in Sicilia si estesero ben presto dalle rive del Mediterraneo centrale alle sponde atlantiche: nel 1066 Guglielmo il Conquistatore impiega infatti, nell’assedio di Londra, grandi macchine per abbattere e scalzare le mura; Exeter viene indotta alla resa da attacchi condotti per più giorni, con gli stessi mezzi, sull’alto delle mura e dal sottosuolo.

Boemondo di Altavilla, qualche decennio dopo, certo si giovò in Palestina delle esperienze fatte nell’Italia meridionale per affrontare con successo, accanto ad altri guerrieri occidentali, i grandi assedi che segnarono l’intero corso della prima crociata da Nicea a Gerusalemme: là dunque confluirono le conoscenze poliorcetiche messe a punto durante le “precrociate” europee dai Normanni, dalle città marinare italiane e dai reduci degli assedi catalani. Con il ritorno dei crociati in Europa le innovazioni tecniche, arricchite dalle esperienze di Terrasanta, rifluirono poi in Occidente.

Se ne videro risultati significativi, per esempio, nell’investimento di Durazzo da parte di Boemondo nell’ottobre de 1107, nelle operazioni condotte dai Pisani alle Baleari nel 1114, dai Milanesi a Como nel 1126, dai crociati anglonormanni a Lisbona nel 1146 e, infine, nei numerosi assedi che ebbero luogo, dopo la metà del XII secolo, nell’Italia padana nelle lotte tra Federico I e i comuni italiani e nella Francia di Filippo Augusto. Progressi decisivi dovrebbero essere intervenuti tra il sesto e l’ottavo decennio del XII secolo allorché, accanto al mangano e alla petraria, compare nell’Europa mediterranea il “trabucco”, cioè la macchina da getto a bilanciere, munita di contrappeso, che conferiva nuove possibilità al vecchio mangano e apriva prospettive di ulteriori perfezionamenti. La prima menzione del trabucco a contrappeso comparirebbe in area bizantina nel 1165, ma nel 1189 già si trova in Italia settentrionale la forma diminutiva: in quell’anno, infatti, gli uomini di Solagna giurano fedeltà al comune di Vicenza impegnandosi a non tirare in città “nec cum mangano, nec trabuchello, aut cum prederia”.

Nel duecento gli sfoggi di tecnologia non trovano più alcun cronista disposto a stupirsi, segno evidente che la diffusione di certe innovazioni è ormai un fatto acquisito e la costruzione di efficaci macchine da lancio e di avvicinamento, insieme con l’uso del fuoco e delle gallerie di mina, sono divenute pratiche correnti. Si spiegano così anche i numerosi insuccessi di assedi che si verificano nel corso del secolo, dalla crociata antialbigese nel sud della Francia a quelli di Federico II contro le città italiane. Per dare una nuova fondamentale scossa ai procedimenti poliorcetici occorrerà ormai attendere l’avvento delle armi da fuoco.

“Mirandi artifices”: gli ingegneri militare

L’importanza allora assunta dai detentori del sapere tecnico, rimasta in parte viva nell’alto medioevo, tornò a crescere, insieme col progressivo recupero dei procedimenti poliorcetici antichi, sino a toccare il culmine nel corso dei secoli XII e XIII. Chi erano coloro che per tanto tempo ebbero nelle mani le sorti delle guerre? La risposta non è facile poiché essi poco scrissero di se stessi e gli storici raramente li tengono in conto, e non tanto per riconoscerne i meriti, quanto per deplorarne la doppiezza e l’inaffidabilità. Si trattava, in generale, di artigiani, fabbri e carpentieri, in possesso di un sapere empirico acquisito attraverso la pratica e trasmesso quasi esclusivamente per via orale, di padre in figlio o da maestro ad apprendista. Al vertice della gerarchia stava “l’architetto” (detto poi “ingegnere”) il quale, condividendo l’esperienza dei suoi subordinati, era in grado di organizzare e dirigere il complesso dei lavori d’assedio. Le fonti solo occasionalmente lasciano intravedere la loro figura, per lo più sotto forma di uomini itineranti disposti, per necessità o per desiderio di lucro, a mettere le proprie nozioni di tecnologia militare a disposizione di un committente interessato a servirsene. I tecnici vengono trascurati dalla letteratura epica concepita a esaltazione dell’eroe e delle sue capacità di colpire direttamente l’avversario, solo incidentalmente, quindi, è possibile cogliere la presenza degli “ingegneri” nel bel mezzo di un’azione di guerra.  Fra gli inconvenienti che la professione offriva vi era anche il pericolo di venire incidentalmente e inaspettatamente proiettati nel vuoto al posto di un proiettile. Si è tramandata la disavventura accaduta nel 1232 a un “maestro” veronese impegnato nella difesa del castello di Nogarole assediato dai mantovani: manovrando una librilla da lui stesso costruito, si trovò lanciato in aria e, dopo aver percorso un notevole tragitto, cadde miracolosamente incolume nel bel mezzo del campo nemico. In Italia esisteva un vero e proprio mercato di tecnologia militare che dalle città marinare italiane dell’alto Tirreno raggiungeva da un lato le sponde atlantiche e dall’altro l’entroterra padano. Quando i milanesi nel 1127 decisero di porre fine alla ormai decennale guerra contro Como, cercarono a Genova e a Pisa gli uomini capaci di costruire le macchine necessarie all’espugnazione della città nemica.

Nella seconda metà del XII secolo Pisa e Genova parteciparono con i loro tecnici alle lotte fra i comuni italiani e Federico Barbarossa; esse rappresentarono in Italia uno dei momenti culminanti nello sviluppo della poliorcetica medievale, che vide applicare nell’Europa continentale le esperienze d’oltremare.

Il De regimine principum, redatto da Egidio Colonna intorno al 1280, si rifà alla trattatistica antica soprattutto attraverso il De re militari di Vegezio.

Le vittorie della fame

Tre sono per il Colonna i modi di prendere una fortezza: per sete, per fame e per battaglia. Non a caso la sete viene messa la primo posto: se mediante diversi accorgimenti, infatti, alla mancanza di viveri si può per un certo tempo sopravvivere, è invece praticamente impossibile ovviare alla sete. Chi intraprende un assedio deve quindi innanzitutto fare in modo di privare di acqua gli assediati.

E’ inoltre opportuno iniziare le operazioni durante la stagione estiva, prima che i prodotti del nuovo raccolto siano venuti a integrare le scorte dell’anno precedente, e quando più facilmente l’acqua si può esaurire. Nel mondo occidentale, per buona parte del Medioevo, infatti, l’ignoranza delle tecniche d’assedio antiche o l’insufficienza dei mezzi disponibili riduceva spesso l’azione degli attaccanti ad un elementare blocco statico che mirava a ridurre alla fame i difensori per costringerli alla resa.

Gli assedianti che vogliono più rapidamente avere ragione di una fortezza – consiglia Egidio Colonna – se catturano alcuni degli assediati hanno interesse non a ucciderli, ma piuttosto a mutilarli rendendoli invalidi e a rimandarli indietro perché contribuiscano così a consumare più in fretta le scorte senza essere di alcun giovamento per la difesa. Non si tratta di una spietatezza puramente teorica: nel 1305, racconta Giovanni Villani, i fiorentini e i lucchesi assediarono Pistoia “e chiunque era preso che n’uscisse, all’uom era tagliato il piè e alla femina il naso, e ripinto dentro nella città”. Usò accortamente e spietatamente l’arma delle “bocche inutili” Filippo Augusto di Francia quando nel 1203 decise di prendere per fame il formidabile complesso di Chateau Gaillard. In esso si erano rifugiati molti abitanti dei dintorni e il comandante della guarnigione, ormai alle strette, decise di espellere coloro che non erano in grado di portare armi; il re da parte sua, rendendosi conto che così gli assediati potevano resistere più a lungo, non permise loro di uscire; più di 400 persone, uomini, donne e bambini, respinte dagli uni e dagli altri, rimasero bloccate nello spazio intermedio, costrette a vivere in grotte e a nutrirsi d’erba od occasionalmente di qualche animale di passaggio, così che i più morirono di fame.

Le macchine, le artiglierie

La conquista di una fortezza “per battaglia” esige l’impiego di diverse macchine da lancio e d’assalto. La riunione di più funzioni in realizzazioni definite “mostruose”  continua nel corso del tempo come dimostrazione di virtuosismo meccanico e, nello stesso tempo, per influire psicologicamente sull’avversario. Tale è anche la “gatta” allestita nel 1218 da Simone de Monfort contro i tolosani ribelli. “Metterò nella gatta – dichiara Simone – 400 dei migliori cavalieri che sono con noi e 150 arcieri perfettamente equipaggiati, poi la spingeremo a piedi sul fondo del fossato della città”.

Quali erano il numero, le prestazioni e gli effetti delle macchine da lancio impiegate negli assedi medievali? Diciamo subito che è difficile rispondere poiché le fonti riportano, in genere, no dati concreti ma semplici impressioni deformate dall’enfasi retorica e dal desiderio di stupire. A Lisbona nell’agosto del 1147 gli anglo-normanni erigono due “fundae balearicae” (ovvero mangani a trazione), una sulla riva del fiume manovrata dai marinai e l’altra dai cavalieri; gli “artiglieri” vengono divisi in gruppi di cento così che, a un segnale stabilito, una “centuria” può dare il cambio all’altra. Se davvero – come sottolinea il cronista – in dieci ore furono scagliate cinquemila pietra, la cadenza di tiro superò un colpo al minuto. Tale performance, certo molto faticosa per coloro che la realizzarono, mostra quali potevano essere le prestazioni di un mangano; non conosciamo però né il “calibro” dei proiettili lanciati né i risultati raggiunti. Si trattava del resto di un semplice tiro di copertura per proteggere l’azione di coloro che nel frattempo minavano le mura.

Le macchine sono in grado di provocare danni preoccupanti alle strutture murarie ma non tali da spazzare via senz’altro le mura. Al solito i proiettili sono molto efficaci contro le persone non sufficientemente protette. Lo stesso Simone de Monfort fu ucciso nel giugno del 1218 da una petriera manovrata dalle donne di Tolosa: “La pietra cadde direttamente dove occorreva; essa colpì il conte sull’elmo d’acciaio così fortemente che gli spezzò gli occhi, il cervello, i denti di sopra, la fronte e le mascelle; il conte cadde a terra molto insanguinato e livido”.

Mentre continua l’impiego del mangano, la petriera viene lentamente sostituita dal trabucco: Gli apparecchi vengono talora costruiti sul posto nel corso dell’assedio, ma anche portati al seguito dei reparti operanti, probabilmente smontati, segno questo da un lato delle capacità tecniche raggiunte e dall’altro dell’esistenza di veri e propri parchi di artiglieria. Per la produzione, la custodia e il trasporto di mezzi tanto delicati e ingombranti era certo necessaria una complessa e costosa organizzazione logistica; la disponibilità di macchine da lancio veniva così a costituire una prima discriminante, sul piano economico e tecnico, fra la volontà di potenza e l’effettiva capacità di conseguirla, che escludeva senz’altro i soggetti più deboli.

L’importanza attribuita alle macchine, e la loro relativa rarità, è segnalata anche dai nomi propri, retorici o pittoreschi, che venivano ad esse attribuiti: nel 1168 i faentini disponevano di due mangani battezzati Asino e Falcone impiegati nella conquista di Argenta. Nel giugno del 1191, durante l’assedio di Acri, Filippo Augusto di Francia schiera una sua eccellente petraria chiamata Mala Vicina, contrapposta a una macchina turca detta Mala Cognata. L’usanza si mantiene nel tempo poiché nel 1294 gli orvietani avevano un trabucco di nome Vattelana (cioè “battilana”), i modenesi nel 1306 una balista chiamata Lupa, e nomi propri assumevano i trabucchi schierati nel 1304 da Edoardo I d’Inghilterra contro il castello di Stirling.

Nulla di preciso è dato conoscere sulla gittata delle macchine a contrappeso ma possediamo qualche dato in più sul “calibro” dei proiettili lanciati. Tra le 14 macchine schierate nel 1249 da Ezzelino da Romano contro la rocca d’Este – dice Ronaldino da Padova – ce n’erano che “lanciavano pietre del peso di 1200 libbre e oltre (cioè dai 405 ai 580 chili). Si ha l’impressione che nel corso del trecento

vi sia la tendenza a realizzare macchine sempre più potenti: i trabucchi che nella prima metà del secolo suggeriscono a Buridano la teoria dell’impetus gettano infatti proiettili di 5 quintali; nel 1374 i genovesi impiegarono all’assedio di Kyrinia, nell’isola di Cipro, “una macchina chiamata troia” capace di lanciare pietre dal peso che andava da 12 a 18 cantari, cioè da 570 a 850 chilogrammi; e si ha notizia che o cernesi e i veneziani possedevano trabucchi caricati con proiettili pesanti sino a 12 e a 14 quintali. Ma quale era in generale l’efficacia dei trabucchi?

Senza voler negare effetti distruttivi estesi, certo possibili, contro fortificazioni di particolare debolezza, pare, in generale, che i danni riguardino soprattutto le strutture abitative interne e non la cerchia esterna delle fortezze colpite, cosa che del resto era sufficiente a mettere i presidi in forte disagio sino a costringerli alla resa. Vi erano peraltro fortezze che, per la loro posizione o per la grande  robustezza delle mura, si rivelano del tutto inattaccabili.

Grande effetto poteva esercitare sugli assediati il numero di coloro che li tenevano chiusi e, forse anche di più, la vista dei macchinari posti in campo: l’apparato ossidionale ha dunque un valore di dissuasione psicologica forse superiore alle sue capacità di svolgere un’azione fisica diretta. La sola minaccia di ricorrere a tali macchine poteva avere un effetto deterrente tale da convincere senz’altro un presidio alla resa.

Le macchine da lancio erano anche utilizzate per eseguire tiri, diciamo cos’, “non convenzionali” intesi ad ottenere effetti di natura puramente psicologica: nel 1097 i crociati proiettano in Nicea le teste dei nemici uccisi in uno scontro affinché i turchi “si spaventassero maggiormente”. Nel corso del Duecento, specialmente in Toscana e in Emilia, si stabilì l’usanza di lanciare entro le mura di una città assediata, con intento di insulto e sfida, disprezzo ed irrisione, i corpi di certi animali, soprattutto asini. Nel “manganare” o “traboccare” un asino, all’intenzione di dileggiare l’avversario, si univa probabilmente un’implicita dimostrazione delle proprie capacità tecniche dato il peso cospicuo dell’animale. Nel 1309 i veneziani in lotta con i ferraresi, come da tempo era uso nelle battaglie navali, ricorsero alla proiezione di “olle piene di sterco e orina, calce, sapone, zolfo e pece infuocati”. Eccoci passati dal semplice dileggio ad una vera e propria guerra “batteriologica” .

Gli attacchi – consigliano i trattatisti – devono essere reiterati senza sosta, con spiegamento di mezzi e di rumori improvvisi, di giorno e soprattutto di notte poiché il buio accentua l’effetto terrorizzante. Casale Monferrato, assediato il 17 luglio del 1214, resiste validamente sinché – dice il cronista Codagnello – gli abitanti, scorgendo i nemici, risoluti a non desistere dall’impresa, dirigersi verso di loro armati e disposti “in schiera strettissima” con tutti mangani, petriere, gatti, torri mobili, ponti e più di cento scale, furono presi dal panico e si diedero prigionieri del podestà di Milano. Naturalmente anche il fuoco ha un valore intimidatorio e può essere utilizzato per piegare psicologicamente il morale dei difensori. 1121, castello di Drezzo: visto vano ogni sforzo i com’aschi “preparan quindi il medicato fuoco” e Pagano Prestinari scocca una “infuocata, fiammeggiante, luminosa saetta”; i tetti “ardono tosto fumigando e una densa caligine s’aderge ad offuscare il cielo”; i difensori resi trepidanti dalla paura, subito si arrendono.

Talora interi gruppi di fortezze cadono, per una specie di “effetto domino”, in seguito alla paura da cui sono invasi coloro che dovrebbero difenderle.  Fenomeni simili accaddero in Puglia e in Sicilia durante la conquista normanna: gli invasori concentravano i loro sforzi contro una fortezza e quando riuscivano ad averne ragione, vi irrompevano depredandola: “Per conseguenza – riferisce Goffredo Malaterra – anche i rimanenti castelli circonvicini, vedendo ciò che sarebbe loro toccato, spontaneamente si sottomettevano al loro potere”.

La terra e il fuoco

“Gli assedianti – consiglia Egidio Colonna – devono segretamente scavare la terra in un certo luogo nascondendolo agli occhi del nemico, se necessario, con una tenda o con un edificio, e ivi aprire gallerie sotterranee, come fanno i minatori per cercare argento o altri metalli, più profonde di quanto lo siano i fossati della fortezza da espugnare in modo da arrivare sotto le mura”; queste vengono provvisoriamente sostenute con puntelli di legno ai quali in un secondo tempo si appicca il fuoco provocandone così il crollo. Se la caduta avverrà verso l’esterno si otterrà anche il riempimento dei fossati agevolando così l’accesso agli assalitori. Le gallerie possono anche proseguire oltre la cerchia, in modo da sbucare direttamente nella città o nel castello assediato in simultaneità con la caduta delle mura.

Da tempo immemorabile l’uso del fuoco era uno degli elementi immancabili nell’investimento di ogni piazzaforte: l’arazzo di Bayeux  raffigura due guerrieri che, brandendo lance portafuoco, si sforzano di incendiare la palizzata del castello di Dinant.

Essendo le porte i punti più vulnerabili di ogni fortificazione, esse dovevano essere l’obiettivo preferito anche mediante il semplice accostamento di materiali infiammabili. Nonostante i suoi terribili effetti non risulta che l’impiego del fuoco in guerra fosse sentito come un atto poco cavalleresco o contrario al codice morale corrente: non solo manca ogni condanna esplicita di un suo uso indiscriminato, ma vediamo talora considerate come imprese del tutto meritorie e onorevoli le azioni con esso condotte.

La scalata, la forza, il tradimento.

Tra i modi di impadronirsi di una fortezza “per battaglia” il più “comune e pubblico” – dice il Colonna – consiste nell’avvicinare scale alle mura e condurre un attacco appoggiati dal tiro dei propri arcieri, balestrieri e frombolieri: un modo semplice e diretto, è vero, ma pericoloso e difficile, se non attuato di sorpresa. E’ per questo che l’attacco mediante scalata avviene assai spesso nelle ore notturne e scegliendo i luoghi più accessibili e meno sorvegliati.

L’attacco per scalata non si limita tuttavia a subdole azioni notturne, ma comprende anche audaci imprese compiute in presenza del nemico, assai frequenti nel corso della prima crociata. Dei 370 assedi del XIV secolo ricordati nelle Cronache di Froissart, nel 30% dei casi si tenta un assalto; nel 20% si utilizzano macchine d’assedio e si pratica una scalata, tecnica che continua ad essere più che mai attuale e pericolosa per gli attaccanti. Al tempo delle compagnie di ventura si attribuiva un premio (25 fiorini ci dice Diomede Carafa, il quale consiglia di attribuire premi non solo “allo primo fosse stato in montare”, ma anche al secondo e al terzo.

Il realtà la presa di una città o di un castello “con la forza” assumeva un rilievo innanzitutto giuridico per il diverso trattamento cui andavano incontro i presidi che non scendevano a patti con i vincitori. Lo riassume brevemente – nel racconto di Salimbene da Parma – l’ultimatum lanciato da Guido di Albereto nel maggio del 1283 agli uomini di Cavillianum rinchiusi nella pieve fortificata da San Paolo: “Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presi con la forza, sarete tutti impiccati senza misericordia”.

L’attaccante cerca spesso al complicità all’interno della fortezza nemica in modo da penetrarvi con l’inganno e il tradimento. I traditori, se presi, vengono colpiti da punizioni di esemplare ferocia allo scopo di scoraggiarne l’esempio: nel luglio del 1287 alcuni congiurati – racconta Salimbene – dovevano aprire dall’interno le porte del castello di Reggiolo ai fuoriusciti di Reggio; dieci vennero scoperti e riuscirono a fuggire, ma uno di essi fu preso, torturato, appeso per le braccia al palazzo del comune, poi decapitato, trascinato per la pubblica via in segno di derisione e infine bruciato; tutti i suoi congiunti furono banditi in perpetuo. Il diacono di Sant’Antonio delle Castella confessò “spontaneamente” e prontamente, senza tortura” la sua intenzione di consegnare Bianello ai fuoriusciti: “Subito gli segarono le canne della gola e lo portarono in giro per il borgo morto e nudo, poi lo buttarono giù dal castello come un vile cadavere. E così fu sepolto con la sola camicia nella chiesa di Sant’Antonino”. A sua sorella Berta, ritenuta complice, “tagliarono la lingua e la espulsero da Quattro Castella”.

Le risorse della difesa

La difesa – puntualizza Egidio Colonna – deve innanzitutto poter contare sulla consistenza della fortezza basata sia sulla natura del luogo sulla struttura e sulla disposizione di mura, torri e fossati; ovviamente, poi, per evitare la fame, occorre avere sufficienti scorte di acqua e di viveri e allontanare per tempo i deboli e gli inutili. Non meno importante, s’intende, è la disponibilità di armi, munizioni e materiali di ricambio. La seconda risorsa di chi si difende va cercata nella sostanziale debolezza dell’offesa, che assai spesso induce a non tentare neppure un assedio, operazione di per sé lunga e costosa che richiede non solo mezzi e spiccate capacità tecnico-organizzative, ma anche la disponibilità di un esercito numeroso per bloccare a lungo e il più ermeticamente possibile la fortificazione nemica. E ciò era più vero se si trattava di un centro abitato e di una città di rilevanti dimensioni. Se l’impresa accenna a prolungarsi oltre il previsto è subito in agguato fra gli assedianti il pericolo della “noia”. D’altra parte la necessità di vettovagliare un grande esercito imponeva agli assedianti le stesse preoccupazioni che si volevano provocare negli assediati. Il fallimento dell’impresa è spesso sanzionato dal rogo della macchine d’assedio che l’aggressore mette in atto prima di ritirarsi. I milanesi, abbandonando nel 1161 l’assedio di Castiglione, bruciarono mangani, petriere e gatti; Federico I ad Alessandria, nel 1175, ordinò di incendiare insieme con gli accampamenti anche le torri d’assedio di legno; non diversamente Federico II nel 1238, togliendo l’assedio a Brescia, “fece bruciare gli edifici e i castelli di legno”.

Le contromisure

Ad ognuna delle tecniche adottate dall’attaccante deve corrispondere l’adatta risposta da parte del difensore. Si previene la possibilità di scavare gallerie di mina mediante fossati assai profondi e possibilmente pieni d’acqua; dove ciò sia impossibile occorre vigilare se si vedono in atto trasporti di terra da parte del nemico o qualunque altro indizio che riveli la sua intenzione di scavare gallerie, individuarne il sito e quindi rispondere con un cunicolo di contromina.

L’acqua interviene pure per scoprire  se si stia occultamente e silenziosamente lavorando nel sottosuolo; occorre per questo sistemare sulle mura una bacinella. Se la superficie del liquido in essa contenuto si increspa, è segno che vi è sotto il nemico che scava. Si dovrà quindi preparare una contromina e, se possibile, deviare nel cunicolo un corso d’acqua.

Contro le macchine da lancio e i mezzi d’assalto si reagisce innanzitutto con il tiro delle proprie artiglierie.

Trabucchi che si affrontano scagliandosi reciprocamente proiettili dall’alto e dal basso delle mura si vedono negli Annali genovesi ad illustrazione dell’assedio di Albisola del 1220.

Il crudele accorgimento di legare gli ostaggi alla torre, già usato dal nonno a Crema nel 1159, viene imitato da Federico II durante l’assedio di Brescia, ma Calamandrino, che dirigeva il tiro dei difensori, “erette le sue macchine, lanciava pietre contro le torri e mostrava di essere un ottimo ingegnere” riuscendo a distruggerle senza colpire i prigionieri.

Gli artifici incendiari

Nel giugno del 1090 il castello di Brionne, in Normandia, viene incendiato lanciando  sui suoi tetti di legno frecce le cui punte metalliche erano state rese incandescenti sopra la forgia. Frecce incendiarie usano i com’aschi a Drezzo, e ben note esse sono anche ai milanesi che nel 1161 scagliano nella città di Lodi “pilottos et sagittas igne accenso”. Materie incendiarie venivano naturalmente lanciate anche mediante grandi macchine da getto: Egidio Colonna descrive un’apposita fondina costituita da catenelle di ferro, o meglio “tessuta con ferro”, per poter lanciare blocchi di metallo incandescente contro le macchine nemiche. Il testo di Vegezio (IV secolo), in almeno tre diverse occasioni, accenna al fuoco composto di bitume, zolfo, resina, pece liquida e stoppa imbevuta di olio “incendiario”. Si tratta, in generale, di materiali di uso più o meno comune in grado di agevolare la combustione, fra i quali ricorrono con particolare frequenza la pece e lo zolfo. Durante la prima crociata i turchi si servono regolarmente di un fuoco detto “greco” che il cronista Alberto di Aquisgrana ricorda in più occasioni come composto di “grasso, olio, pece, zolfo” e del tutto inestinguibile con l’acqua. I senesi, almeno dal 1230, sapevano probabilmente lanciare il loro fuoco pennace mediante i cosiddetti “tomboli”: si trattava verosimilmente di razzi costituiti da tubi di carta arrotolata e ripieni di “materie resinose, oli, bitumi e forse anche polvere pirica” che al momento dell’accensione producevano uno “tombolo”, cioè uno scoppio.

Gallerie di fuga

L’ultima risorsa dell’assediato che si vede ormai alle strette e senza speranza di resistere, ma che non intende arrendersi, è la fuga silenziosa nel cuore della notte. Tali fughe avvengono di solito calandosi dalle mura o aprendo brecce alla loro base o utilizzando lunghe gallerie, precedentemente costruite che sbucano in un bosco fuori dalle mura (come nel 1385, castello di Pechpeyroux, Francia, ci racconta Froissart).

UOMINI CONTRO

Lo scarseggiare di battaglie in campo aperto imponeva l’esigenza di avere dei surrogati. Questa fu la sfida lanciata dai milanesi e dai loro alleati nel giugno del 1295 a un esercito cremonese chiuso in Lodi: essi si avvicinarono “sino alla distanza di quattro colpi di balestra e anche fino ai fossati, suonando le trombe e gridando: ‘Uscite fuori, ruffiani di Cremona! Uscite fuori fanfaroni, e venite a combattere!’ Ma gli sfidati non osarono uscire. I milanesi rimasero fino a mezzogiorno e poi se ne ritornarono incolumi” mentre i cremonesi, a loro volta, col favore della notte si ritirarono.

Il bell’ordinamento delle schiere poteva apparire addirittura più importante del loro stesso impiego sul campo: mostrare di fronte all’avversario ordine, compattezza e disciplina era infatti sufficiente per indurlo, se non ad arrendersi, almeno a ritirarsi. Non di rado una campagna di guerra poteva così risolversi in una semplice esibizione di forza nella quale il numero, il perfetto inquadramento, lo sfavillare delle armi e delle armature, la ricchezza dell’apparato, i colori, il numero delle bandiere, il coro delle voci e il risuonare degli strumenti musicali acquistavano un valore di pressione psicologica di grande efficacia: un buon capitano mostrava di essere tale innanzitutto mediante l’abile regia della sua troupe.

Che cosa provava un fante o un cavaliere degli eserciti comunali italiani al momento di schierarsi in campo aperto di fronte al nemico?

Si trattava, è bene ricordarlo, di combattenti non professionisti periodicamente distolti, per qualche giorno o tutt’al più per qualche settimana, dalle attività lavorative quotidiane. I rari resoconti a noi noti parlano del comportamento collettivo dei combattenti per lo più tenendo conto dei risultati da essi conseguiti.

1259, milizia comunale di Chieri (TO). I consoli devono far procedere in prima fila, davanti al gonfalone, i tiratori con archi e balestre tese, e frecce e quadrelli incoccati; segue un reparto di quattrocento uomini selezionati in base alla migliore qualità dell’armamento, dotati cioè di corazza di maglia o di lama d’acciaio e di copricapo metallico; viene poi il grosso del “popolo” tallonato da un drappello di venticinque degli uomini migliori i quali hanno il compito di “restringere” gli altri e di impedirne la fuga: “e se qualcuno fuggisse – si aggiunge – incorrerà nella pena di 50 lire, e i predetti 25 potranno impunemente percuotere tutti i fuggitivi e imporre loro la pena affinché stiano fermi e tengano il volto e le armi rivolti verso i nemici.” A Bologna e a Tortona, il nome dei disertori doveva essere scritto, e le loro fattezze dipinte, nel palazzo comunale, e ciò comportava l’infamia e l’esclusione perpetua da ogni pubblico ufficio; in altre città, come a Mantova, l’entità della punizione negli averi e nella persona era invece affidata all’arbitrio del podestà, e per frate Giordano da Pisa “chie dalla sua ischiera esce si è bando il piede”. Oltre al podestà e ai suoi ufficiali, anche i “di stringitori” e i “guardaschiera” per esser in grado di assolvere il loro compito, erano muniti di bastone il quale diventava quindi uno strumento tutt’altro che metaforico. Imporre, se necessario, alle reclute di stare in riga a colpi di bastone e con la minaccia di gravissime punizioni, al di là del valore “addestrativi” che ciò assumeva, poteva dunque avere un senso anche sul piano tattico, proprio in funzione della necessità che l’esercito aveva di “apparire”, fatto talora sufficiente per avere ragione del nemico.

I primi a fuggire erano normalmente i cavalieri: il cavallo, mezzo eccellente per l’attacco, serve altrettanto bene per sottrarsi al pericolo con rapide e vergognose fughe. Il cavaliere, infantilmente fiero della sua armatura luccicante e dei suoi pannoncelli colorati, non era sempre propenso a rischiare la vita, così che nei momenti più delicati spesso lasciava il fante a morire da solo sul campo di battaglia.

TEMPI DI GUERRA

Le necessità pratiche presiedevano all’organizzazione di una campagna militare: la temperatura doveva consentire di vivere all’addiaccio o sotto le tende, era opportuno muoversi su strade sgombre da neve e fango, era bene che gli animali da trasporto disponessero di foraggio fresco, che i mari e i fiumi fossero navigabili, tutte condizioni che non si verificavano prima dell’avanzata primavera. Risultato: almeno il 70% delle imprese di cui le fonti hanno conservato memoria, appare concentrata da maggio ad agosto. La primavera, insieme con gli eserciti, muove i pellegrini, i mercanti diretti alle fiere, giudici e ufficiali avviati a rendere la giustizia itinerante e gli ecclesiastici chiamati ai loro sinodi. Nella seconda metà del XIII secolo, Salimbene da Parma scrive:” Il tempo in cui i re sogliono procedere alle guerre si chiama maggio, che è tempo tranquillo, giocondo e temperato, nel quale canta l’usignolo” e aggiunge “e l’erba è abbondante per i buoi e per i cavalli”.

L’abitudine di riprendere la lotta “subito dopo il raccolto” è data come corrente nel mondo comunale. Se si prevedeva di assediare una fortezza, l’estate era senz’altro la stagione più adatta avendo però cura – consiglia Egidio Colonna – di porre il blocco prima del raccolto, quando il nemico non ha ancora potuto rinnovare il suo vettovagliamento. Nel pieno dell’estate, poi, le scorte d’acqua degli assediati si esauriscono più velocemente senza essere reintegrate da piogge, i fossati difensivi rimangono secchi e le intemperie non molestano gli assedianti acquartierati all’aperto. L’impostazione stagionale della guerra e il ciclo dei lavori agricoli tendevano a interferire e a condizionarsi a vicenda in diversi modi. Durante i frequenti periodi di insicurezza che travagliarono in Italia l’intera età comunale, i cittadini in armi si impegnavano a proteggere i contadini durante i lavori agricoli più importanti dai quali città e contado traevano i mezzi indispensabili per la loro sussistenza.

D’altronde i momenti giudicati militarmente più propizi, e quindi la mobilitazione degli uomini nell’esercito, venivano spesso a coincidere con i lavori più importanti e impegnativi dell’annata agraria creando così gravi interferenze con la condotta delle operazioni. Nel 1016 il vescovo di Vercelli Leone, confessava di aver assediato per quindici giorni il castello di Orba, nel Piemonte sudorientale, senza poterlo prendere perché gli uomini ai suoi ordini “minacciavano continuamente di andarsene a cause della vendemmia”.

Nel settembre del 1243, durante uno scontro sul Mincio, molti cavalli morirono soffocati dal calore, e la spedizione compiuta dai milanesi a Lodi nel luglio del 1250 passò addirittura alla storia come “l’esercito della Caldana” poiché durante il ritorno, sia per la polvere che per la calura, più di duecento fanti vi lasciarono la vita; e morti per il caldo vi furono anche nel giugno del 1266 tra i bresciani e i mantovani che assediavano il  castello cremonese di Covo. L’assedio posto a Brescia da Federico II nell’estate del 1238 subì le conseguenze di un’epidemia provocata – secondo quanto tramanda un cronista cremonese – dall’immenso numero di mosche: a malapena “si riusciva a mangiare senza ingoiarne o insieme al cibo o perché volavano direttamente in bocca”, e “la sommità dei padiglioni e delle altre tende sembrava tinta del nero colore della notte per la quantità di insetti che vi stavano posati.” Il disagio dell’uomo di guerra era aumentato durante la stagione estiva dalla necessità di portare la corazza che nell’età medievale, non meno che nell’antichità greca, costituiva un problema molto serio sia per il peso, sia per la mancanza di ventilazione: “le piastre metalliche compatte e senza aperture, non proteggevano né dal caldo né dal freddo” e d’estate, in particolare, gli abiti portati sotto la corazza “si inzuppavano rapidamente di sudore rendendola insopportabile”.

In inverno i problemi erano ugualmente insormontabili. I cavalieri francesi che tentarono di porre l’assedio a Cherbourg nell’inverno del 1378-79, di fronte al freddo terribile, allo sprofondare dei cavalli e alla scarsità di viveri conclusero “che non era né la stagione né il tempo adatto per porre assedi” e senz’altro rinunciarono all’impresa.

Scrive l’Anonimo Romano sugli scontri del 1339 tra Azzone Visconti e suo cugino Lodrisio tra Legnano e Parabiago: “Lo tempo era de vierno, e era sì esmesuratamente granne la neve che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi allo iuniuocchio omo se affonnava nella neve. Granne era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano imbrattate”. In simili condizioni “quarantaquattro centinaia de uomini fuoro occisi, senza li affocati in fiume e nelli gorghi della neve” che impedì anche la fuga degli sconfitti.

La temperatura e gli agenti atmosferici influenzavano fortemente l’efficienza della armi da lancio: le balestre di corno “servono meglio in regione secca che umida e hanno maggiore gittata quando fa fredde rispetto a quando fa caldo” e l’esperto sa bene che tutte le balestre, “sia di corno sia di legno, vanno tenute costantemente al riparo dal sole, dalla pioggia e finanche dalla rugiada”.

La notte, se obbliga alla sospensione dei combattimenti tra armati è particolarmente adatta per ogni genere di azione di sorpresa: si possono vettovagliare fortezze assediate o introdurvi almeno propri agenti; il buio favorisce l’evasione sia di prigionieri sia di guarnigioni assediate che, invece di arrendersi, eludono all’ultimo momento il nemico con la fuga.

IL CORPO DEL SOLDATO

In un mondo in cui il pericolo della fame era costante, il passaggio di un esercito numeroso era sufficiente a provocare carestie “artificiali” le cui componenti erano nello stesso tempo la causa e le vittime, e che inevitabilmente coinvolgevano l’intera popolazione. Il quadro alimentare offerto dai consigli di Egidio Romano per il vettovagliamento di una fortezza che si propone di resistere ad un assedio è il seguente: è necessario disporre di acqua di fonte, di pozzo o di cisterna, certo, ma anche di grandi quantità di aceto e di vino “perché con il bere solo acqua i guerrieri non si debilitino”. Oltre ai cereali panificabili (frumento, avena, orzo, miglio che si conserva a lungo), occorrono il sale e la carne. In caso di prevedibile necessità sarà giocoforza necessario nutrirsi di cibi solitamente ritenuti non commestibili.

Il vino viene normalmente considerato bevanda indispensabile per i combattenti, sia per il valore nutritivo sia per le sue qualità igieniche rispetto all’acqua; il fatto che esso venisse distribuito alla truppa nei giorni di combattimento potrebbe far pensare alla ricerca di una funzione eccitante.

E’ molto probabile che molti soldati si gettassero nella mischia nient’affatto lucidi, anzi completamente ubriachi.

Le fonti scritte dei secoli XII e XII consentono di abbozzare una traumatologia del combattente a cavallo ben al di là della dismisura offerta dai racconti epici. L’impiego della spada che, al contrario della rapidità del colpo di lancia, può essere più volte reiterato, comporta una prevalenza di ferite alla testa. La protezione offerta dall’elmo e dallo scudo serve certo ad attenuare gli effetti dei fendenti che comunque riescono spesso a raggiungere il viso, la fronte o la mascella dell’avversario. La spada, vibrata dall’alto in basso, può colpire con una certa facilità, dopo la testa, le spalle, le anche, le braccia e, più specialmente, il braccio destro. A parte la frattura del cranio, tutte le ferite inferte, pur comportando effusione di sangue, solo raramente risultano mortali.

Le fonti scritte del pieno Medioevo occidentale sono riluttanti a perdere delle ferite inferte ai cavalieri dalle armi da getto,caso che doveva essere invece frequentissimo soprattutto negli scontri collettivi e durante gli assedi. Almeno dall’XI secolo in poi, quando venne incrementandosi l’uso della balestra, gli effetti delle frecce dovevano essere spesso letali nonostante la protezione della corazza, e non troppo diversi erano quelli dell’arco composito che gli occidentali sperimentarono su di se durante la prima crociata. Non si deve peraltro ritenere che ogni colpo giunto al bersaglio riuscisse senz’altro mortale poiché l’esito dipendeva, oltre che dalla protezione di cui si era muniti, anche dalla distanza e dalla posizione da cui il dardo era scoccato.

Chirurghi famosi si impegnarono per mettere a punto metodi appropriati per l’estrazione delle frecce e per la cura dei loro effetti lasciandone ampia traccia nella trattatistica del XII e XIII secolo. L’arazzo di Bayeux ci mostra Aroldo d’Inghilterra nel momento in cui ad Hastings riceve la freccia mortale in un occhio. Il Liber in honorem Augusti di Pietro da Eboli raffigura il ferimento del conte Riccardo di Acerra avvenuto nel 1191 durante l’assedio di Napoli: mentre si sporgeva dalle mura egli ebbe la faccia trapassata da una guancia all’altra; segue la scena in cui un chirurgo, assistito da due donne che reggono piatti e ampolle, impugna la freccia per estrarla dalla ferita.

CONCLUSIONI

Voglio concludere questa lunga galoppata nel Medioevo con la breve cronaca di un episodio accaduto nel XVI secolo, lontano dall’epoca medievale e lontano dal continente che vide scorrere l‘epoca medievale.

“Dopo circa tre mesi di assedio intorno a Tenochtitlàn, odierna Città del Messico, le munizioni per le artiglierie spagnole iniziavano ormai a scarseggiare. A quel punto un semplice soldato, tal Stelo, reduce dalla campagna per la conquista del regno di Napoli, si presentò a Cortes affermando di essere capace di costruire un trabocco, avendolo visto fare in Italia, in modo da poter continuare il bombardamento alla disgraziata capitale atzeca. L’offerta, manco a dirlo, fu entusiasticamente accettata, ed in pochi giorni, sotto gli sguardi atterriti degli assediati ed incuriositi dei commilitoni, l’improvvisato ingegnere eresse la sua macchina. Caricatala ed armatala con un grosso pietrone nella fionda, rimosse l’arresto: con violenza inimmaginabile il braccio ruotò verso l’alto, spezzando uno degli ancoraggi della fionda. Questa, per conseguenza, si aprì prematuramente lanciando verticalmente il macigno, che raggiunta una discreta quota, piombò giù esattamente sulla macchina, schiantandola!”

Si concludeva così ingloriosamente la lunga esistenza delle artiglierie meccaniche: quasi venti secoli e ben tre continenti separavano in quel giorno d’agosto del 1521 a Città del Messico gli estremi della vicenda, premessa basilare dell’attuale civiltà tecnologica. Nel bene e nel male.

Riferimenti bibliografici:

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Milano, 30 aprile 2005

Marco Dubini